SCIOGLIERE LA LISTA TSIPRAS?
Sciogliere la lista L’altra Europa – insieme a Sel e PRC – per dare vita da subito a un movimento unico a sinistra del PD, come propone Curzio Maltese, parlamentare europeo eletto nella “lista Tsipras”? I nomi sono conseguenza delle cose (nomina sunt consequentia rerum) dicevano gli antichi. E su quella proposta, che è di buon senso, vanno fatte alcune considerazioni. Innanzitutto sui nomi; poi sulle cose.
Abbiamo passato tre mesi di raccolta firme e di campagna elettorale a spiegare che Tsipras non era il nome di un nuovo medicinale, ma una persona: un leader politico che ci aveva prestato un programma (da completare e rielaborare) e una figura di riferimento super partes (in Italia particolarmente necessaria, visto l’alto tasso di litigiosità). Allora nessuno lo conosceva; adesso cominciano a sentirne parlare; presto occuperà tutte le prime pagine e le aperture dei media. Sarebbe sbagliato non utilizzare proprio ora, in qualche modo, il riferimento a un nome che spiega meglio di qualsiasi discorso quello che vogliamo.
L’altra Europa: quello di mettere al centro del nostro programma – ma anche del nostro operare quotidiano nei territori – l’Europa e la necessità di un cambiamento radicale delle sue politiche a cui è legata ogni possibile svolta a livello nazionale e locale è stato e resta il punto di forza di chi ancora si riconosce nel nostro progetto. E ”altra” indica una alternativa radicale che, in tempi di renzismo imperante, si rivela una discriminante irrinunciabile a tutti i livelli. Oggi poi, a dar corpo e parole a quell’”altra Europa” abbiamo i nostri tre parlamentari, il nostro collegamento con le forze che fanno capo al GUE e soprattutto con le più vive tra di esse.
Poi, specie all’inizio del nostro percorso, abbiamo dovuto spendere un mare di parole per rispondere a tutti coloro che, anche e soprattutto dalle nostre file, deploravano o protestavano perché nel logo della lista non era stata inclusa la parola “sinistra”. Io da anni non mi considero più “di sinistra”, anche se ho sempre evitato di impuntarmi (né intendo farlo ora) in una disputa su questo tema: penso che per la stragrande maggioranza degli elettori la parola sinistra significa PD e dintorni e tutte le pratiche, palesi e occulte, con cui ogni riferimento agli interessi e alle aspirazioni delle classi e dei ceti popolari è stato da tempo abbandonato. Tra l’altro, pur essendone uno dei promotori, non avevo partecipato alle riunioni in cui è stata decisa la rosa di nomi da sottoporre a consultazione tra i sottoscrittori dell’appello che ha dato vita alla lista Tsipras; ma capisco benissimo le motivazioni di chi aveva preso la decisione di non inserirvi comunque il termine “sinistra”: per rivolgersi a un pubblico più ampio di quello che fa tradizionalmente capo alla sinistra storica; e anche a chi vede come il fumo negli occhi molte delle sue pratiche; e per non rinchiudersi in un recinto da cui è difficile uscire, ma soprattutto in cui è difficile fare entrare chi non ne vuol sapere. Capisco il disagio di chi si aggrappa alla parola sinistra come a un’ancora identitaria, dopo aver dovuto abbandonare o mettere in sordina parole come comunista, socialista o progressista; spesso, come accade anche a me, non perché non le condivida, ma perché sono diventate fonte di equivoci. Ma sarebbe un passo indietro rinunciare a quella prova di coraggio che abbiamo saputo dare allora per mettere in evidenza il carattere totalmente nuovo del nostro progetto rispetto agli errori e all’inconcludenza che avevano affondato molti di quelli precedenti. E qui passiamo dai nomi alle cose.
La caratteristica della lista L’altra Europa che ci ha permesso di raggiungere il pur modesto risultato che abbiamo conseguito è insopprimibilmente legata a una condizione enunciata a chiare lettere nell’appello iniziale: “Una lista composta in coerenza con il programma, che candidi persone, anche con appartenenze partitiche, che non abbiano avuto incarichi elettivi e responsabilità di rilievo nell’ultimo decennio”. Su questo punto si è svolta all’epoca con alcuni dei nostri interlocutori una prova di forza, vinta solo in parte (e, per la parte non vinta, pagata a duro prezzo in termini elettorali), che ha dato a gran parte del nostro elettorato la conferma che si stava percorrendo una strada nuova rispetto ai pessimi precedenti delle liste Arcobaleno e Ingroia. Sarebbe fatale abbandonare quella impostazione nelle prossime competizioni elettorali, ma forse essa è già stata ora la fonte delle divisioni con cui ci siamo presentati alle elezioni in Calabria e in Emilia Romagna. La lista L’altra Europa si può anche sciogliere, come propone Curzio Maltese; a condizione però di non essere considerata, e di non comportarsi, come una delle “componenti” di un accordo tra partner, accanto a SEL, a Rifondazione e, magari, ad Azione Civile e al Pdci. Noi siamo un’altra cosa; e abbiamo un’altra storia.
Non so a che cosa alludesse Nichi Vendola quando nel suo intervento al seminario di Transform! di Firenze lamentava di aver subito, lui e il suo partito, dei gravi torti durante la campagna elettorale, come se entrambi venissero trattati dal resto della lista come dei semplici “portatori di consenso”. Vorrei ricordare, fuor di polemica, che l’analisi del voto ha mostrato che questo ruolo, se mai c’è è stato, ha avuto un esito molto parziale: solo un terzo dei voti raccolti da SEL nel 2013 è confluito nella lista l’Altra Europa (e tra questi, molti, come il mio, confluiti allora su SEL non per adesione politica, ma solo per evitare l’astensione o il voto ai cinque stelle o a consolidare il precedente della lista Ingroia). Mentre l’idea di trattare la lista Tsipras come una ”lista di scopo” o un esperimento finito – poco più di un taxi per cercare di portare qualcuno dei “loro” nel Parlamento europeo, ben sapendo che da soli non ce l’avrebbero fatta – ha trovato casa soprattutto tra le file di SEL: da parte di alcuni che poi, coerentemente, sono confluiti nel PD; e di altri che si sono invece candidati (ma perché mai?) a partecipare alla guida di quel taxi, pur considerandolo da rottamare.
Il problema è molto serio e ha a che fare con quella necessità di “cambiare anche le facce, i leader, la generazione alla guida, gli strumenti e gli stili di comunicazione” di cui parla Curzio Maltese. Perché finché i programmi sono solo parole non è difficile mettersi d’accordo; ma poi ci sono pratiche, specie a livello locale (che sono spesso quelle che tengono in vita, attraverso alleanze con il PD, alcuni partiti; e la cosa non riguarda solo SEL) che le sconfessano, a volte platealmente, proclamando una cosa per fare esattamente l’opposto. Come dichiararsi per l’acqua pubblica e poi votarne la privatizzazione, o quella dei servizi pubblici locali (e addirittura insediandosi nelle aziende privatizzate); o come chiamare il Tav Torino Lione un orrendo buco nella montagna per poi sostenere una giunta capofila nel perseguitare il popolo NO-Tav; o come tacere di fronte allo scempio di un’intera città in cambio di qualche incarico e di qualche finanziamento; o appoggiare tutto ciò che rappresenta uno disastro sia per il territorio che per il bilancio di un ente locale sostenendo che solo così lo si può modificare. Viste sotto questa luce, è vero che le elezioni locali sono “le più pericolose”. Sono pratiche che devono finire una volta per sempre perché squalificano qualsiasi aggregazione che non le sappia escludere. Prenderne atto è la strada maestra per ritrovarsi, da militanti e attivisti, tutti insieme. Che è quello che (quasi) tutti vogliamo. Questo è ovviamente, come quello di Curzio Maltese, un contributo del tutto personale a un dibattito già in corso da tempo