Green New Deal?
Al summit del 22 e all’Asemblea generale dell’ONU del 23 settembre i governanti di tutto il mondo hanno fatto la parte dell’orchestrina del Titanic che continuava a suonare, invitando i passeggeri a continuare a ballare senza preoccuparsi, mentre il piroscafo affondava. Forse costoro, come chi li sostiene, contano di trovar posto sulle “scialuppe di salvataggio”, in qualche angolo del pianeta sicuro, da cui tutti gli altri in cerca della propria sopravvivenza vengano respinti, come già hanno cominciato a fare con decine di migliaia di profughi ambientali. Ma non c’è nessuno che da un altro pianeta possa venire a recuperarli; anche loro e le loro “scialuppe” prima o dopo andranno a fondo. Oltre una certa soglia, che appare sempre più vicina, infatti, la catastrofe climatica in corso sarà irreversibile per tutti, alimentata da un feed-back positivo.
Tra quegli orchestrali c’è chi, come Renzi – riprendendo il vecchio ritornello caro a Prodi, ma ormai sulla bocca di tutti, quello che ci ha portato al disastro attuale, prova irrfutabile della continuità che lega in Italia e nel mondo rottamati e rottamatori – continua a invocare “crescita, crescita, crescita” senza nemmeno accorgersi che il sistema è ormai entrato in una stagnazione secolare. Ma il controcamto di quell’orchestra è “sviluppo sostenibile” che, tradotto in italiano, altro non vuol dire che “crescita duratura”, cioè infinita: infiorettando la crescita – che infinita, come è noto, non può essere, e forse è già arrivata al capolinea – con gli obiettivi sociali ripresi paro-paro dai millennium goals dellONU. È, qui da noi, la posizione ufficiale dell’Asvis, che ha da poco presentato il suo quarto rapporto annuale. Si cerca così di nascondere il fatto che quegli obiettivi, mai raggiunti nella precedente edizione, hanno comunque bisogno della “crescita” non solo per essere raggiunti, ma anche solo per essere perseguiti. A meno di rovesciare completamente gli assetti sociali esistenti: proprio quello che Asvis cerca di evitare.
Che è invece l’obiettivo esplicito perseguito in tutto il mondo dalla mobilitazione del movimento mondiale Fridays for Future, ispirato dalle comparse mediatiche (benvenute!) di Greta Thumberg: un movimento che ha la possibilità di aggregare in un unico schieramento tutte le organizzazioni del mondo, per ora separate e disperse, che in vari modi si battono contro la combinazione inestricabile di degrado ambientale e ingiustizia sociale.
Greta ha avuto successo perché la sua comparsa è coincisa con la pubblicazione dell’ultimo rapporto climatico dell’Ipcc che accorciava di anni (ora solo più dieci) il tempo a disposizione per invertire rotta; ed entrambi hanno avuto ascolto (ma ben poco dal ceto politico, che pure rende omaggio ad entrambi) perché hanno coinciso con il precipitare di eventi climatici (uragani, incendi, scioglimento dei ghiacci, siccità) che ormai sono sotto gli occhi di tutti e che, in piccolo o in grande, tutti siamo ormai in grado di “toccar e con mano”.
Ma ascoltare la voce ormai inconfutabile degli scienziati del clima (quelli che da quarant’anni ci avvertono del disastro incombente), o anche quella dei tecnici che hanno messo a punto strumenti e soluzione per ricavare l’energia che ci serve dal sole, per consumarne molto meno a parità di risultati, per coltivare la terra senza avvelenarla, per metter al sicuro il suolo su cui camminiamo, non basta. La conversione ecologica (o anche solo la transizione energetica) non è una scienza; e meno che mai una tecnica che si possa imparare dagli scienziati o dagli esperti. È un processo che deve coinvolgere tutti ed essere sospinto, se non dalla maggioranza della popolazione mondiale, per lo meno da diversi miliardi di esseri umani consapevoli della posta in gioco. Per questo la premessa di tutto, come sostiene Extinction Rebellion, da oggi di nuovo in campo in tutto il mondo con azioni esemplari, è “dire la verità”: spiegare e far capir a tutti la minaccia, tra pochi anni irrevrsibile, che grava su tutto il genere umano e su ciascuno di noi; e il poco tempo a disposizione per cambiare rotta; e le trasformazioni profonde necessarie per evitare la catastrofe incombente. Ma, ovviamente¡, non ci si può limitare a questo: occorre essere in grado di mostrare che “un altro mondo è possibile”; che per realizzarlo è necessario il concorso di tuttiu e di ciascuno; che non siamo soli: in tutto il mondo ci sono associazioni, movimenti epopoli che perseguono, ciascuno nel proprio contesto, lo stesso obiettivo.
Oggi, per un numero crescente di organizzazioni, questo obiettivo si chiama Green New Deal: è il “socialismo” del nostro secolo, completamente diverso da quello dei due secoli; invece dello “sviluppo delle forze produttive” persegue la riconciliazione degli umani con la natura e attribuisce uguale importanza alla lotta contro tutte le manifestazioni del patriarcato; non si accontenta della “nazionalizzazione” dei mezzi di produzione, né vuole una gestione condivisa da parte di ogni comunità; invece di un piano centralizzato vuole una molteplicità di negoziazioni tra organismi e comunità autonome; invece del controllo dello Stato da parte di un partitio persegue un federalismo che affianchi agli organi della rappresentanza strumenti di partecipazione popolare. Non tutti coloro che sono impegnati nella lotta per il clima e per l’ambiente condividono tutti questi punti. Ma proprio per questo il terreno di confronto, cioè della lotta politica del nostro tempo, non può che vertere intorno a loro.