Quale transizione?
La crisi climatica e quella ambientale (ma gli incendi e le alluvioni afferiscono all’una o all’altra? O non sono forse manifestazioni dello stesso processo?) hanno trovato finalmente accesso ai giornali e ai servizi radio e TV, anche se vengono tenute alla larga dalle prime pagine e dalle aperture, che continuano a occuparsi soprattutto di covid.
L’Europa – dicono – è corsa ai ripari con il NextGenerationEU; l’Italia con il PNRR; gli Stati uniti di Biden con il rientro nell’accordo di Parigi; la Cina con piani che sfidano i programmi degli USA. Ma sono programmi adeguati? No.
Sono mancati ovunque informazione e confronto per coinvolgere veramente cittadine e cittadini, nei loro ruoli di produttori, di consumatori, di portatori di conoscenze, esperienze e capacità, tutte cose senza le quali è impensabile realizzare, ma nemmeno impostare, una svolta delle dimensioni e della radicalità richieste dalla crisi. Perché le cose da fare – e soprattutto quelle da non fare più – sono molte di più di quelle che sono in grado di mettere in moto (e meno che mai, di portare a termine) i governi. L’alibi dello “sviluppo sostenibile” – l’dea che sia possibile mantenere, diffondere e, quindi, fa crescere l’attuale livello di produzioni e di consumi, ma in modo “sostenibile”, cioè con fonti energetiche e risorse rinnovabili e con il riciclo – ha precluso alla generalità degli abitanti della Terra di guardare in faccia l’abisso: le dimensioni della crisi; il suo “stato di avanzamento”; la radicalità dei cambiamenti che impone a tutti; in molti campi, la sua irreversibilità ormai acquisita: i ghiacciai e le calotte polari che si sciolgono non si riformeranno più; l’acqua dolce a disposizione dell’umanità sarà sempre meno; l’innalzamento del livello del mare non può essere fermato; la desertificazione di molte terre neppure: l’humus perso richiede migliaia di anni per riformarsi; la deforestazione dei tropici sta invertendo il ruolo che le foreste hanno sempre avuto nel ciclo del carbonio; la fuoriuscita di metano dallo scioglimento del permafrost e di idrati dalle acque profonde dell’Artico non fanno che accelerare l’effetto serra; ondate di calore insopportabile e alluvioni incontenibili entreranno a far parte della quotidianità ovunque.
Il contenimento della temperatura mondiale sotto i 2°C va ormai considerato una chimera (figurati a 1,5°C): se anche l’UE, e gli USA, e persino la Cina rispettassero gli impegni assunti con gli INDC presentati alla COP 21 di Parigi (e, come vediamo, è molto difficile che ciò avvenga, visto le continue pretese di deroghe ed esenzioni, a partire da quelle enunciate dal nostro ministro della Transizione) l’obiettivo, ci avverte l’IPCC, l’organismo intergovernativo promosso dall’ONU per monitorare la crisi climatica, non verrebbe raggiunto. Ma è comunque necessario moltiplicare gli sforzi per perseguirlo senza remore in ogni paese anche se altri non lo fanno, pregiudicando il risultato complessivo. Perché?
Perché la maggior parte delle misure dirette a contenere l’effetto serra, alla “mitigazione” della crisi climatica, sono anche le più appropriate per promuovere l’”adattamento” alle condizioni molto più ostiche in cui si troveranno a vivere – se sopravviveranno – le future generazioni: un obiettivo che non può che tradursi in una “deglobalizzazione” (Walden Bello) guidata verso comunità territoriali il più possibile economicamente autonome. E’ in queste decisioni che cittadine e cittadini devono essere coinvolti. Ora.
Carbone, petrolio e gas vanno lasciati – da subito – sottoterra; l’economia deve mettersi in grado al più presto di alimentarsi solo con fonti rinnovabili: con una impiantistica che può essere diffusa e distribuita a livello locale, all’interno di comunità più o meno vaste, senza il gigantismo degli impianti dell’economia fossile (pozzi, miniere, oleodotti e gasdotti, flotte e convogli, impianti di termogenerazione e raffinazione) che la turbolenza climatica e le crisi economiche e sociali mettono sempre più a rischio; e senza le guerre (e gli armamenti) in gran parte scatenate per accaparrarsi fonti energetiche inegualmente distribuite nel pianeta, e il cui concorso alle emissioni climalteranti non viene peraltro computato negli INDC.
L’efficienza è fondamentale, ma da sola non basta a sostenere una economia votata alla “crescita”. Consumi di energia e materiali dovranno essere ridotti all’essenziale, attingendo i secondi, per quanto possibile, alla gamma delle risorse rinnovabili e al riciclo di materiali e prodotti scartati localmente, dando spazio a manutenzione e riparazione dei beni durevoli. Tutto ciò non può che riflettersi in un’altrettanta drastica riduzione dei consumi. Ma quali? Qui si apre su due fronti – quello degli stili di vita e quello dell’occupazione – un conflitto il cui esito non può essere delegato a un ministro: vanno contenuti i consumi superflui (che oggi alimentano larga parte della domanda che sostiene l’economia) o quelli più necessari? Quelli che generano profitto per pochi o quelli che garantiscono vite decenti alla maggioranza? E soprattutto, si possono sostenere delle produzioni, non perché mettono capo a consumi necessari, ma solo perché generano occupazione? Luca Mercalli ha sollevato il problema a proposito dell’intento del ministro Cingolani di salvaguardare la cosiddetta motorvalley, il cui epicentro è la produzione di auto da corsa e di superlusso, necessariamente legate a un grande consumo di fossili sia nella produzione che nell’uso. Ma scendendo di livello, l’auto forse sarà ancora praticabile, se condivisa, come complemento di un trasporto pubblico efficiente; ma l’auto individuale, ancorché elettrica e di modeste dimensioni, no. Ma se non si investe ora su un modello di mobiità condivisa le comunità di domani si ritroveranno immobilizzate (e la bici non basterà certo a risolvere il problema). Ma le conseguenze occupazionali di una scelta del genere sono comunque pesanti; in parte lo si vede già ora nelle prime fabbriche che licenziano. La ricollocazione degli “esuberi” su nuove occupazioni richiede tempo e, sicuramente, riduzioni generalizzate degli orari di lavoro. Ma di un reddito alternativo c’è invece bisogno subito.
Quanto al cibo dovrà essere prodotto e lavorato il più vicino possibile a dove viene consumato, con un’agricoltura ecologica, di prossimità, multifunzionale, restituendo a bosco, foreste e riassetto idrogeologico gran parte del territorio oggi impegnato per gli allevamenti. Bisogna quindi che tutti si convincano a consumare molta meno carne e a sprecare meno. E anche questo richiede consenso e convinzione.
Si ridimensionerà da sé, per i costi dei voli, la paura del contagio, il rischio di rimanere bloccati lontani da casa, la sostituzione con collegamenti on-line, il turismo, soprattutto quello transnazionale: sia vacanziero che di affari, sportivo, culturale, politico e persino religioso; oggi il turismo è la principale industria del mondo, anche per i molti settori che mette in moto. Ma la triste fine delle Olimpiadi di Tokyo (che anticipa quella del 2026 di Milano-Cortina) è un campanello di allarme. E’ un settore che alimenta milioni di imprese, e da cui dipendono le vite di miliardi di persone. E poi, ma qui viene “il bello”: per molti le vacanze all’estero rappresentano forse l’unica ragione per cui si accetta di lavorare tutto il resto dell’anno. E non vogliamo discuterne?