Commento a Flores
C‘era molta più affinità e unità di intenti tra i partecipanti alle due manifestazioni del 12 e del 19 ottobre a Roma di quanta ce ne fosse tra i rispettivi promotori, che in parte hanno voluto, e in parte hanno comunque ritenuto ineluttabile, che tra quei due “popoli” ci fosse il minor dialogo possibile. Da un lato ha giocato la paura, più che motivata, che la manifestazione del 19 degenerasse nell’inutile e controproducente riproposizione di uno scontro di piazza: e a innescare quei timori non era certo stata solo la forsennata campagna di stampa che annunciava una giornata di fuoco (una campagna che non si è mai fermata: neanche dopo, sostituendo agli scontri che non c’erano stati due piccole scaramucce innescate ai margini del corteo). Pesava, e pesa ancora, il ricordo della giornata del 15 ottobre 2011 – una mobilitazione internazionale – che a Roma aveva visto una partecipazione di popolo quale mai ce ne erano state in anni recenti (e che avrebbe dovuto concludersi in un’acampada come quelle che hanno costituito il cuore delle mobilitazioni di questi anni a Madrid, Barcellona, New York, Il Cairo e Istambul), e che era stata mandata in fumo da una prevaricazione – prontamente raccolta dalle “forze del disordine” – da cui non si sono mai dissociati alcuni promotori del corteo del 19, mentre altri apertamente vi si richiamavano.
Dall’altro ha giocato l’eccessiva genericità dell’appello a difendere e attuare la costituzione, che qualcuno ha anche parafrasato, ribattezzandolo “La via modesta” (dato che quella “maestra” è un libro, appena uscito, di Napolitano), senza nascondere un sostanziale scetticismo nei confronti del richiamo alla costituzione, spesso giudicata nient’altro che “un pezzo di carta”. Ma ha pesato soprattutto la decisione di non allargare al di là della cerchia dei cinque promotori l’arco delle organizzazioni disposte a impegnarsi per fare della manifestazione del 12, come era stato promesso, nient’altro che l’inizio di una mobilitazione che avrebbe dovuto investire e svilupparsi in tutte le città e in tutto il paese. E questo, come era già apparso evidente nell’assemblea preparatoria dell’8 settembre, non solo per proteggersi da intrusioni partitiche, che comunque non sono, come sempre, mancate; ma per non mettere in discussione non tanto i vincoli economici imposti dalla governance europea – un tema su cui ormai non è difficile trovare un accordo di facciata, per lo meno finché resta nel cielo di un’astratta discussione teorica – quanto il loro garante in Italia: quello senza il quale non ci sarebbero né le “larghe intese” né la permanente reviviscenza di Berlusconi: cioè Giorgio Napolitano.
Certo non è difficile immaginare, e anche verificare, che i partecipanti a entrambe le manifestazioni vorrebbero altro o di più. Da un lato, se la costituzione non va solo difesa ma “attuata”, perché è un programma politico di lotta, andavano e andrebbero subito avviate iniziative concrete sui temi più scottanti: il diritto alla casa, al lavoro, al reddito, alla salute; iniziative che in tutti i casi mettono in campo questioni radicali, del tipo: che fare delle centinaia di migliaia di alloggi sfitti e invenduti, in presenza di centinaia di migliaia di famiglie senza casa? Che fare delle aziende chiuse, abbandonate dai vecchi padroni, già vendute e rivendute tra pubblico e privati, e ancora alla ricerca di qualcuno che le rilevi (a pagamento, cioè mettendoci dei soldi pubblici), per continuare a mandarle in malora (vedi Ilva, Lucchini, Alcoa, Jabil, Nokia, Lucent, Telecom, Alitalia, ma anche Ansaldo, Fincantieri, Fiat, e tante, tante altre)? Non è ora di requisirle e di metterle in mano a una governance di maestranze, comunità e autorità locali, assistite da un piano nazionale di riconversione che le sostenga nella ricerca di nuovi sbocchi? E che fare per prevenire il dissesto del territorio? Continuare a scavare il tunnel Torino-Lione che la Francia non vuole o invitare anche sul palco i rappresentanti del movimento NoTav? E come dare un reddito di base a precari e disoccupati? Non è ora di ridimensionare non solo l’acquisto degli F35, ma tutta la spesa e gli impegni militari dell’Italia?
Ma non è solo l’Europa a non volere queste cose; c’è tutto il governo e i partiti che lo sostengono, e c’è Napolitano che ce lo ha imposto. Ma per perseguire anche una sola di quelle misure, bisogna “battere i pugni sul tavolo” e minacciare ai nostri partner europei di trascinare anche loro in quello sfracello a cui ci hanno condannato – come hanno condannato la Grecia – contando di rimanerne indenni. E allora il problema è di lavorare per dare un seguito, ma anche una rappresentanza politica, alle aspirazioni di chi, nonostante la grande risposta all’appello alla mobilitazione del 12, continua a ritrovarsi chiuso in un angolo senza sbocchi dall’imperativo della ”stabilità” – cioè del disastro economico, politico e morale che è davanti agli occhi di tutti – imposto dalle “larghe intese”.
D’altra parte, se partecipanti e promotori della manifestazione del 19 ottobre hanno considerato una vittoria – cioè una tappa importante di un cammino che si prospetta molto lungo – il fatto di essere ricevuti dal ministro Lupi, pur sapendo in anticipo che non avrebbe gli dato niente, è perché anche a loro è ormai chiaro che la lotta va condotta su tutti i fronti, e che dare ai movimenti una rappresentanza politica non vuol dire tradire i loro obiettivi, ma moltiplicare gli strumenti di lotta. D’altronde, anche per loro, i vincoli europei – e tutto quel che ne segue – sono un problema, che la concretezza degli obiettivi per cui si battono non rende meno urgente affrontare.
Apparentemente, dunque, ci sono le condizioni per una marcia di avvicinamento tra quei due “popoli” (che spesso, nella vita e nelle lotte quotidiane, si trovano uno di fianco all’altro); mentre accentuare gli elementi di divisione e contrapposizione sarebbe, questo sì, devastante. Ma quali potrebbero essere le tappe di questa marcia?
Innanzitutto la consapevolezza ci una discriminante fondamentale che ci separa dai protagonisti delle larghe intese, anche se e quando queste venissero meno, soprattutto per quanto riguarda il nostro rapporto con l’Europa, perché è li che si gioca la vera partita. Vanno rigettati in blocco i vincoli che stanno portando uno dietro l’altro i paesi europei verso la catastrofe greca (altro che ripresa alle porte, continuamente promessa, per l’anno successivo, dal 2008 in poi!) Su questo obiettivo vanno ricercate alleanze e unità di intenti con le forze emergenti dai movimenti di tutti gli altri paesi europei e si può trovare una sponda in un vasto arco di forze e di singole personalità che ormai si sono convinte che la strada imboccata dalla governance europea è senza sbocchi. L’Europa che noi vogliamo è quella federalista delle autonomie locali, della democrazia partecipata, della riconversione ambientale delle produzioni e dei consumi, del reddito di base per tutti, dell’accoglienza, dei diritti della persona e dei lavoratori fuori e dentro i luoghi di lavoro; e non quella del dominio incontrastato delle banche e dei “mercati” che votano al posto nostro. E proprio perché la partita si gioca in campo europeo vanno respinti senza esitazioni tutti i richiami a chiusure nazionali o nazionalistiche dentro i confini di uno Stato che non ha più veri poteri, e nessuna possibilità di tornare a esercitarli in quanto Stato: come il respingimento dei migranti e dei profughi, la discriminazione dello “straniero”, la santificazione di tradizioni, per lo più inventate, come strumento di coesione sociale, il ritorno a una valuta nazionale, invece della rifondazione dell’euro su basi politiche condivisibili, come se in un’economia ormai globalizzata l’apparato economico italiano fosse in grado di riprendere la strada di un tempo senza una sua radicale riconversione e riterritorializzazione in senso ambientale.
In secondo luogo vanno prese le distanze dai tentativi di far credere che si possa stare contemporaneamente di qua e di là: con il Pd e contro le sue scelte (e di questo la senatrice Laura Puppato, che ha partecipato al corteo contro la modifica dell’art. 138, e poi ha votato per la sua deroga, è l’emblema; un’ambiguità mortale di cui sono affetti anche molti altri, dentro e fuori i partiti della “sinistra radicale”, specialmente quando questi sono al governo negli enti locali. Per esempio, sono contro le privatizzazioni e poi le votano…). Ma occorre guardarsi anche dai tentativi ricorrenti – e in questo le cautele dei promotori della manifestazione del 12 non erano solo opportunistiche – di mettere il proprio marchio e le proprie bandiere su movimenti che possono crescere solo se sono chiamati a riconoscersi esclusivamente nei propri obiettivi di lotta e in scelte effettuate in modo condiviso. Perché lo scippo effettuato da Ingroia e dal suo seguito di dinosauri nei confronti del tentativo, certo maldestro, di promuovere la lista di base “cambiaresipuò” al tempo delle passate elezioni politiche, e l’esito disastroso di quel colpo di mano, ha fatto ai movimenti e alle loro aspirazioni non meno danno della giornata violenta del 15 ottobre 2011. Molte altre cose, a partire dalle leadership, vengono dopo o è meglio evitarle del tutto. Anche in questo caso la vicenda di Ingroia insegna qualcosa.