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Dall’Europa “no” ai nuovi inceneritori (“Venerdì di Repubblica”, 24 maggio 2013)

Inserito da on Maggio 29, 2013 – 10:45 amNo Comment

Nel pieno della crisi Napoli continua a esportare in Olanda una parte dei suoi rifiuti solidi urbani (RSU). Ne esporta sempre meno: circa 500 tonnellate al giorno; un flusso che potrebbe e dovrebbe arrestarsi a fine anno. Paga, per queste “spedizioni” circa 110 euro a tonnellata fob (trasporto compreso); meno di quanto sborsa alla Provincia tra selezione meccanica, inceneritore di Acerra e invio del rimanente verso le discariche della Puglia e di altre regioni del centro-nord, per “smaltire” la parte rimanente della frazione indifferenziata (più di 160 €/t).

Ma la notizia che ha fatto sensazione è un’altra: altri paesi scandinavi, tra cui la Norvegia, si contendono i carichi di “monezza” di Napoli (e non solo di Napoli; e non solo italiani), per bruciarli nei loro inceneritori. Quello che qualsiasi persona normale giustamente si chiede è: Perché? Perché non bruciamo in casa nostra quello che siamo costretti a mandare all’estero e che in tanti ci chiedono? La spiegazione di un’assurdità simile non è semplice; proviamo a districarci in questo ginepraio.

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Primo: la raccolta differenziata (RD), che in quei paesi di importazione va molto meglio che in Italia nel suo insieme (e a Napoli in particolare), ma assai peggio che in molti comuni virtuosi del nostro paese, comprese molte grandi città – in particolare nei comuni che hanno adottato la strategia “Rifiuti Zero” – ha fatto mancare agli inceneritori dei paesi del centro e del nord Europa la “materia prima” da bruciare. Senza un apporto di rifiuti italiani (o francesi, o belgi) quegli inceneritori sono condannati a spegnersi, in alcuni casi (pare che questo sia il caso della Norvegia) mettendo in forse anche una quota dell’approvvigionamento di energia elettrica.

Secondo. Gli inceneritori a cui sono destinati i rifiuti che esportiamo lavorano comunque sottocosto e si contendono i nostri rifiuti per non trasformare in perdita secca l’investimento fatto per costruirli; soprattutto se esso risale a meno di dieci anni fa. Gestire un inceneritore “moderno”, con produzione di energia elettrica (il cosiddetto “termovalorizzatore”: termine che esiste solo in Italia per indorare la pillola. All’estero si chiama, come è giusto, inceneritore) costa non meno di 150 €/t , anche scontando i ricavi della vendita di energia elettrica. Per questo gli inceneritori italiani sono stati e sono abbondantemente sovvenzionati con incentivi alla produzione di energia “pulita” ricavati dalla nostra bolletta elettrica: prima con il famigerato CIP6, ancora in vigore per molti impianti, compresi quelli di Torino e Parma entrati in funzione da pochi giorni, nonostante che da anni la Commissione Europea abbia dichiarato illegittimi quei sussidi. E oggi anche con i certificati verdi, sulla base di una mera finzione: che cioè a bruciare in quei forni entri , almeno per la metà, materiale organico: cioè carta – che invece è la frazione più facilmente intercettata con la RD – e scarti di cucina: che notoriamente non bruciano. A tenere in attività gli inceneritori è esclusivamente la plastica: cioè petrolio allo stato quasi puro; che però è anche il materiale di maggior pregio per il riciclo. Per questo costruire nuovi inceneritori in Italia non conviene assolutamente e – a parte ogni considerazione per le loro conseguenze tutt’altro che trascurabili (ma non entro nel loro merito) sulla salute umana e sull’ambiente – non dovrebbe convenire nemmeno tenere in attività quelli già costruiti.

Terzo: ma allora che si fa? Bisogna che i nostri sindaci e amministratori locali si mettano a studiare. Per capire che il problema dei rifiuti non si risolve con l’incenerimento e le discariche, ma con la riduzione alla fonte, con la RD e con gli impianti a freddo. Cioè tecnologie di trattamento meccanico-biologico (MBT) della frazione residua del rifiuto urbano, senza combustione, che permettono di recuperarne l’intero contenuto. Tra l’altro l’Italia, con l’impianto di Vedelago (TV), che è privato e funziona senza contributi pubblici, è da molti anni all’avanguardia in questo campo. Ma anche i rifiuti campani diretti, alcuni anni fa, in Germania non finivano direttamente negli inceneritori ma in impianti di recupero delle frazioni residue – carta e plastica – finalizzati al riciclo di questi materiali.

“È l’Europa che lo chiede!”: ci chiede di non fare più inceneritori. In particolare l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) ha avvertito che tra qualche anno tutto il continente sarà a corto di materie prime e che la RD diventerà essenziale per i nostri approvvigionamenti. E la direttiva 2008/98 CE ha declassato l’incenerimento dei rifiuti all’ultimo posto, accanto alla discarica, nella gerarchia delle priorità: semplice “smaltimento finale” di quanto non si può recuperare in nessun altro modo. Non si può invocare l’Europa quando c’è da tagliare pensioni e salute, e poi ignorarla quando ci chiede di adottare strategie razionali in materia di gestione dei rifiuti. Ma bisogna anche che lo Stato metta a disposizione dei comuni i denari per fare i necessari investimenti in questo campo. Niente di tutto questo succederà se la parte attiva della cittadinanza non riuscirà a imporre ai propri amministratori una svolta radicale, senza cui molti comuni rischiano di dover mandare anche loro i propri rifiuti all’estero. Perlomeno finché anche gli inceneritori di quei paesi non verranno spenti.

 

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