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Dobbiamo muoverci (“il manifesto”, 10 aprile 2012)

Inserito da on Aprile 16, 2012 – 9:59 amUn commento

Crisi del mercato – italiano ed europeo – dell’auto, attacco governativo agli incentivi per le energie rinnovabili, movimenti NoTav, NoTem (Tangenziale esterna milanese) ed altri simili: sono fatti da prendere in considerazione insieme. E insieme, anche, a due altri problemi: chi deve tenere insieme quei fatti? E dove? Di questi tre problemi il più serio è il terzo: perché occorre ricostituire uno spazio pubblico – o molte sedi: una per ciascuno dei territori che sono interessati a quei fatti – dove affrontare la discussione in modo operativo. La soluzione del secondo problema coincide in gran parte con quella del terzo: una volta costituita una sede del genere, la partecipazione di una cittadinanza attiva, e di una schiera di lavoratori che aspettano solo di riprendere in mano il loro destino, è molto più facile: c’è nel paese una spinta alla partecipazione che da anni non si sentiva più (la Valle di Susa insegna). Quanto alla crisi dell’auto, agli incentivi per le rinnovabili e alla resistenza contro le Grandi opere, parlano da sé. Li possiamo riassumere così:

Primo, Marchionne ha lasciato definitivamente cadere il fantasioso progetto “Fabbrica Italia” che avrebbe dovuto triplicare la vendita in Europa di auto prodotte in Italia. Al suo posto ha ridotto ulteriormente di un terzo la produzione italiana e spiegato che bisogna ridurre di un terzo anche la capacità produttiva di tutto il settore in Europa: il che vuol dire chiudere altri due (e forse tre) stabilimenti italiani della Fiat. Lo ha detto – o minacciato – e lo farà. In un’Europa ormai entrata in una recessione che a furia di tagli ai bilanci finirà per coinvolgere anche la Germania – e la Volkswagen – la Fiat non ha alcuna possibilità di recuperare le quote di mercato perse. Ma che succederà degli stabilimenti dismessi? Si continuerà a chiedere a Marchionne di “tirar fuori” dei nuovi modelli per recuperare lo spazio perduto? Si aspetterà, come a Termini Imerese, un altro Rossignolo che prometta di produrvi un “suv di lusso”, solo per intascare, come ha sempre fatto, un bel po’ di milioni pubblici? E si passerà poi la mano alla DR Motors, perché produca – lì e anche alla Irisbus di Avellino – un “suv per poveri”, senza avere neanche i soldi né il credito per tenere in piedi lo stabilimento di quella capitale europea dell’automobile che è Isernia? Oppure si lascerà andare in malora fabbriche e lavoratori, come a Termini Imerese e a Avellino? Non si può invece mettere in cantiere una produzione che abbia un futuro più certo e un impatto meno devastante dell’automobile, e che sia compatibile con gli impianti, il know-how e l’esperienza dei lavoratori della Fiat e dell’indotto?

Secondo, il ministro Passera vuole abolire o ridurre drasticamente gli incentivi per le fonti energetiche rinnovabili (che hanno eroso gli incassi degli impianti di termogenerazione) e riempire il paese di trivelle per estrarre altro petrolio e metano (se c’è). La scusa è che quegli incentivi costano troppo (anche se hanno fatto risparmiare parecchio ai consumatori). La realtà è invece che sono stati elargiti a casaccio, senza alcuna programmazione. Sono stati per anni i più alti del mondo (non ce ne era alcun bisogno) e sono finiti in gran parte in mano non a società energetiche, ma a finanziarie, in gran parte estere (che non ne avevano alcun bisogno); e non a coprire fabbisogni energetici di abitazioni e piccole imprese (fotovoltaico) o di comuni e zone industriali (eolico e biomasse) di prossimità. E’ vero che con quegli incentivi sono stati finanziati oltre 400mila impianti fotovoltaici; ma quattro quinti della potenza installata è esclusa dallo “scambio sul posto”; cioè l’energia prodotta non è asservita a un fabbisogno locale, ma va tutta in rete: a costi maggiori di quella generata da impianti termici e, per lo più, dopo aver espiantato campi e frutteti per ricoprire intere vallate di assai più redditizi (grazie agli incentivi) pannelli solari. O, peggio, il paese si sta riempiendo di impianti di generazione a biomassa, alimentati non da residui agroforestali di prossimità, ma da olio di palma importato da Indonesia e Madagascar; o da mais sottratto all’alimentazione umana e animale. Per di più, quasi tutti quegli impianti sono importati, mentre in Italia chiude – e continuerà a chiudere – uno stabilimento metalmeccanico dopo l’altro; perché si è lasciato che fosse “il mercato” – che è solo, e sempre più, speculazione – a decidere come e dove impiegare i fondi degli incentivi.

Ecco allora una soluzione. I nuovi incentivi devono essere inquadrati in una programmazione energetica nazionale che vincoli la loro concessione a un coinvolgimento diretto di quegli Enti locali, ASL comprese, che si faranno carico di promuovere, raccogliere e organizzare la domanda di nuovi impianti sul loro territorio. Una programmazione che preveda anche il coinvolgimento societario degli Enti locali nella riconversione delle fabbriche destinate alla dismissione, prima che il processo imbocchi un cammino irreversibile. Se il loro proprietario non sa più che cosa farsene, che ceda gli impianti a chi ha interesse alla loro esistenza e alla loro conversione. Un progetto del genere può riguardare tutte le fonti rinnovabili e i relativi impianti di generazione; ma anche misure di risparmio energetico: per esempio produzione di infissi, di regolatori di flusso, di pompe di calore e, soprattutto, di impianti di micro cogenerazione, come quelli che Fiat aveva messo a punto e poi abbandonato quarant’anni fa (il Totem) e che oggi ha ripreso con successo la Volkswagen. Quest’idea vìola le regole del “libero mercato”? Forse; comunque la Volkswagen le ha aggirate mettendosi in società con distributori di energia elettrica.

Dunque, si può fare anche in Italia. Cominciando a mettere insieme maestranze e sindacati degli stabilimenti a rischio con le imprese interessate a una generazione energetica locale; e con i loro tecnici, gli esperti della materia (università e centri di ricerca), la cittadinanza attiva, e le amministrazioni dei comuni disposti a farsi coinvolgere in un progetto del genere. Una piattaforma con questi progetti, una volta che siano stati messi a punto in termini generali, potrà essere presentata al governo – questo o il prossimo – ma soprattutto dovrebbe entrare in un programma elettorale e di governo sostenuto dalle forze e dalle istituzioni che vi si riconoscono. Ed essere sostenuta da una mobilitazione generale. In sostanza: si tratta di non delegare al Governo la redazione di un piano energetico, ma di elaborarlo dal basso, mobilitando su interessi concreti tutti coloro che ne possono essere coinvolti e costruendo per questa via le forze per cercare di imporlo con la lotta. Un discorso analogo si potrebbe fare per la mobilità, rimettendo in pista la domanda di autobus, treni locali e traghetti per il trasporto merci di lunga percorrenza lungo le “vie del mare”; o per l’edilizia; o per la salvaguardia del territorio; ecc.

Terzo, qui arriva il tema Tav, Tem e le decine di altri progetti di Grandi Opere in cantiere. Per il Governo, e non solo per il Governo, sono il mezzo per “rilanciare la crescita”: in perfetta linea con i criteri ispiratori della Legge-obiettivo che hanno caratterizzato vent’anni di regime berlusconiano. Per finanziarle, dopo aver sottratto fondi a pensioni e servizi pubblici locali, Passera ha deciso di dare l’assalto alla Cassa Depositi e Prestiti: una specie di banca, finanziata dai depositi postali di milioni dei piccoli risparmiatori, che ha 300 miliardi di risorse utilizzabili. Era stata creata per finanziare gli investimenti degli Enti locali; invece è stata privatizzata e oggi il Governo conta di utilizzarla per finanziare quelle Grandi Opere devastanti che nessuna altra banca vuole più finanziare se non ha la certezza che i soldi, alla fine, li metterà il Governo.

La Cassa Depositi e Prestiti è fuori dal perimetro della finanza pubblica e per questo il Governo pensa di poterla utilizzare senza aumentare il debito pubblico. Impedirglielo con un programma di riconversione produttiva significa impedire un furto a danno dei Comuni e delle loro esigenze, evitare un’ulteriore devastazione del territorio, salvare occupazione, impianti e know-how nelle imprese condannate a morte. È la strada verso la conversione ecologica: in una forma che unisce l’esigenza di mobilitarsi su un programma generale con la sua elaborazione “dal basso”.

 

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