Esista ancora il patriarcato?
Secondo Massimo Cacciari e altri e altre che la pensano come lui, il patriarcato è solo la proiezione sociale della famiglia patriarcale: una famiglia allargata, in cui sono presenti almeno tre generazioni, dove il capofamiglia – “il patriarca” – dispone le cose che ciascun membro della famiglia deve eseguire; con un potere delegato alla donna più anziana che organizza in maniera altrettanto dispotica tutte le attività legate alla cura e alla riproduzione, esercitandolo su tutte le donne della famiglia, per lo più entratevi come mogli, mentre le figlie e le nipoti del patriarca lasciano la casa di origine quando si sposano, per andare ad obbedire alla “matriarca” della famiglia dello sposo.
Questo modello di famiglia, in svariate versioni, è probabilmente ancora presente tra la maggioranza della popolazione del pianeta, tanto che il ricorso alla violenza per impedirne la dissoluzione rappresenta in molti casi la ragione ultima di molti dei conflitti in corso e di tutti gli irrigidimenti delle dittature esistenti. Ma nei paesi che consideriamo Occidente esso è scomparso da tempo per lasciare il posto, dapprima, alla famiglia borghese, dove il “capofamiglia è il marito/padre di un aggregato mononucleare; e, successivamente, alla dissoluzione anche di questo modello con il moltiplicarsi delle famiglie monoparentali – per lo più di donne sole con figli – o a situazioni dove i figli hanno, come genitori acquisiti, i nuovi partner di uno o di entrambi i genitori naturali; o ad altre forme di aggregazione familiare, legittimate dalla sopraggiunta libertà di scelta del proprio genere; o a vedove e vedovi senza più figli in casa; o a single, maschi e femmine, per scelta di vita.
Ora, è vero che in Occidente la famiglia patriarcale è scomparsa e che, con i processi in corso di “occidentalizzazione” del mondo, la sua dissoluzione è più che probabile anche altrove. Ma il patriarcato è qualcosa di più ampio e generale della famiglia patriarcale; per questo i movimenti femministi che si battono contro di esso, denunciandolo come la radice ultima della violenza a cui sono sottoposte le donne, non mettono sotto accusa un fantasma del passato, ma una realtà presente e molto concreta, più grande, più radicata e più antica anche del capitalismo e delle tante formazioni sociali che l’hanno preceduto, come il feudalesimo, il dispotismo asiatico, la civiltà greco-romana, le culture neolitiche, ecc.
Il patriarcato è dominio e possesso – preteso, imposto, subito; ma accettato o legittimato – innanzitutto della donna da parte dell’uomo; di una o più donne da parte di un singolo uomo, che è però espressione di un potere attribuito a tutti i membri maschi di una comunità. Su di esso si sono modellate tutte le altre forme di possesso e di dominio che hanno accompagnato il succedersi delle civiltà: il dominio su figli e nipoti, sugli animali addomesticati, sui campi, sui pascoli e le foreste, sugli schiavi, sulla casa, sui palazzi, sul denaro, sul capitale, sui mezzi di produzione, sul lavoro salariato, sulla conoscenza, sul genoma, ecc. Sono tutte forme di accaparramento di ciò che è fecondo o ritenuto tale, di ciò che produce o permette di produrre. Il modello di tutte queste forme di possesso è quello della fecondità della donna: cioè la “produzione” della propria prole: la perpetuazione, in altre vite, della propria esistenza, che da sempre accompagna o sostituisce l’attesa o il miraggio di una “vita eterna” dopo la morte. Alla radice c’è comunque sempre un rapporto di forza: prevale il più forte, il maschio, o chi, coalizzandosi, ha messo insieme più forze.
Regolamentato in forma orale o scritta, legittimato dalla tradizione o da un codice, questo possesso si è consolidato nel diritto di proprietà (il “terribile diritto” di Beccaria e di Rodotà). Dove non c’è proprietà perché tutto – o ciò che è importante – è comune o condiviso, non c’è dominio; e viceversa. Per questo il patriarcato, inteso come possesso o dominio, è ancora presente tra noi, ben oltre la dissoluzione della famiglia patriarcale e, come ci hanno insegnato i movimenti femministi, è il contesto – il “frame” – in cui si sono incistate tutte le altre forme di dominio con cui abbiamo a che fare oggi; a partire dal capitalismo. Senza fare i conti con il patriarcato non si possono nemmeno farli con il capitalismo: è ciò che tutti, maschi e femmine, abbiamo imparato – o avremmo dovuto imparare – nel corso degli ultimi cinquant’anni. Ma tenendo ben presente la pervasività delle manifestazioni del patriarcato, non solo nelle strutture di potere in cui esso si incarna – lo Stato, l’azienda, l’esercito, la burocrazia, il partito, spesso anche l’associazione, l’accademia, la scienza (mai neutrale), ecc. – ma anche in migliaia di altri aspetti della vita quotidiana, di cui spesso siamo, uomini e donne, inconsapevoli. Alcuni più o meno facilmente individuabili, come il maschilismo, le armi, la guerra, certi sport, certi modi di fare il tifo, la divisione del lavoro, le differenze di retribuzione e di opportunità, la ripartizione e l’intensità delle attività di cura, ecc. Altre più difficili da scoprire, e solo se si presta la dovuta attenzione al loro apparire, come gli infiniti tranelli nascosti in molte espressioni consuete del linguaggio quotidiano.
Anche il moltiplicarsi dei femminicidi richiama irrevocabilmente la presenza del patriarcato: ma per sottrazione. Cioè, non perché la violenza esercitata da un uomo sulla sua vittima donna sia espressione diretta di un potere legittimo di cui l’assassino si sente ancora investito. Ma proprio per il suo contrario. Perché quella perdita di ruolo provocata dalla messa in discussione, sempre più diffusa, della struttura patriarcale della società e della convivenza produce una reazione in chi la vive subendola come una sconfitta. Il maschio “spaesato” non trova più una sua collocazione in un mondo che sta cambiando, che per lui è ignoto, anche perché è ancora in gran parte indefinito. E questo tutti gli uomini lo sanno perché lo hanno provato. Ma è una reazione che può spingersi fino a forme di violenza che non riconoscono né ritrovano il senso del limite. Per questo ogni femminicidio ci riguarda e ci coinvolge tutti come maschi, perché maschi.
P.S. E’ il linguaggio (la “casa dell’essere”) ciò che ci fa esistere come esseri liberi, mettendoci in relazione con gli altri: persone, animali, piante, cose… Per questo gli sforzi per purificare il linguaggio dalla sua impronta maschilista, come da ogni sua connotazione violenta, o legata al dominio su persone o cose, sono tra le componenti più radicali e più importanti della lotta contro il patriarcato. Di questo sono perfettamente consapevoli le molte femministe impegnate a trovare una soluzione per superare il limite insito nei plurali – sempre maschili – riferiti a più generi. Le soluzioni adottate nel linguaggio scritto, come lo schwa o la chiocciola, non riproducibili nel parlato, o la desinenza in u (ma solo nella lingua italiana, i cui termini hanno tutti desinenza in una vocale, per lo più o e i per il maschile, a ed e, per il femminile; resta libera solo la u), rischiano di trasformare la comunicazione in una pratica burocratica che soffoca le potenzialità del linguaggio come motore e veicolo di creatività e di innovazione. Non è una questione confinata all’ambito letterario; è un problema intorno a cui tutti coloro che partecipano al discorso pubblico con scritti o interventi parlati sono chiamati a cimentarsi. Senza cercare di risolvere il problema con qualche strattagemma: l’invenzione di un linguaggio gender-free sarà un percorso secolare.