Gad Lerner va alla guerra?
Anche Gad Lerner si è messo l’elmetto? L’occasione è la strage al museo del Bardo di Tunisi. Il bersaglio è l’avanzata dello stato islamico in Libia e in tutta l’Africa settentrionale. Spiace che quello che succede in Siria, in Libia, in Yemen – e prima ancora in Somalia, in Afghanistan, in Iraq – non insegni niente a Gad, della cui intelligenza sono un estimatore. Gad non dice – perché non sa – che cosa dovrebbe fare in Libia una missione militare (cioè una guerra) guidata dall’Italia, ancorché sotto ombrello ONU. Interventi di polizia internazionale ne abbiamo visti tanti e ogni volta hanno lasciato una situazione peggiore di quella precedente, sia per l’ordine internazionale, sia per le popolazioni che ne sono state vittime. Espansione ed efferatezza dello stato islamico sono una conseguenza – come riconosciuto dallo stesso Obama – di tutti gli interventi che lo hanno preceduto.
Certo la cooperazione tra le sponde settentrionali e meridionali del Mediterraneo è vitale soprattutto per i paesi dell’Europa meridionale, stretti tra due fuochi: a sud, disordine e belligeranza, conseguenze dell’insostenibilità dei “modelli di sviluppo” (o di governo dell’economia) – un’intera generazione, in gran parte istruita, disoccupata e senza futuro – che sta all’origine delle primavere arabe poi in gran parte soffocate. A nord, una politica cieca e sorda delle autorità dell’Unione Europea che avvicina sempre più l’Europa mediterranea alla situazione che ha provocato le rivolte dei suoi dirimpettai della sponda sud.
Ciò da cui siamo minacciati non è l’invasione delle armate dell’Isis, ma – come rileva anche Gad – la moltiplicazione dei giovani indotti o costretti a farsi in bombe umane, che possono agire ovunque senza che se ne possano prevenire le mosse, soprattutto perché crescono sempre più spesso proprio tra di noi, nelle situazioni di emarginazione o umiliazione, sia in Europa che nei paesi arabi in quelli islamici dell’ex impero sovietico. Contro quest’arma letale non c’è esercito, né intelligence, né guerra, né “missione umanitaria”, né “repulisti etnico” che abbia possibilità di successo. Dovremo abituarci a conviverci per molto tempo, lavorando per disseccare l’humus da cui nascono sia il terrorismo suicida che l’attrattiva dello stato islamico o di Al Qaida. Con una strategia fatta di lotte per l’eguaglianza e la parità dei diritti, cominciando da chi ne è più colpito, cioè i migranti di prima e seconda generazione (che sono anche una base sociale potenziale per una ricostruzione democratica dei paesi da cui provengono), le minoranze etniche, i giovani senza futuro. Ma soprattutto, le donne, perché la vera posta di queste guerre è la conservazione o la restaurazione, nelle forme più brutali, del potere dell’uomo sulla donna. Non c’è niente di religioso nell’Isis o nel terrorismo di matrice islamica, come non ce n’è in chi difende la sostanza patriarcale delle radici giudaico-cristiane della nostra civiltà (e meno che mai in chi spaccia per liberazione la mercificazione ostentata e offensiva del corpo della donna). Ma la capacità delle donne di far valere il loro punto di vista e i loro diritti – ne sono un esempio luminoso le comuni del Rojava, che resistono da sole allo stato islamico – è la vera arma che può minare alle sue basi sia le guerre scatenate da un falso Islam, sia il richiamo alla purezza etnica o culturale contro le invasioni di profughi e migranti di cui si alimentano in Europa gli imprenditori politici della paura. Gli interventi militari possono anche giustificarsi: le popolazioni esposte alle guerre spesso li invocano. Ma senza lotta contro discriminazioni e cultura patriarcale, senza fermare il traffico di armi, senza vie di uscita diplomatiche, non si fa altro che avvitarsi in un gorgo senza fondo.