Il Mayday di Milano (3 maggio 2011)
Nella giornata di domenica scorsa, come ormai da diversi anni, la ricorrenza del primo maggio a Milano ha dato una rappresentazione visiva di un tratto fondamentale della nostra società; e soprattutto delle sue dinamiche.
Al mattino la banda del Comune si è portata dietro, nel corteo “ufficiale, uno sparuto gruppo di affiliati alle tre confederazioni, un altrettanto sparuto gruppo di affiliati ai partiti di centro sinistra (più Sel e Rifondazione che PD) qualche rappresentanza di aziende in crisi e una piccola delegazione di migranti. Pochi slogan, niente musica se non quella della banda. Dietro, come tutti gli anni, diverse migliaia di militanti di Lotta Comunista, usciti dalla catacomba della loro quotidianità, dove nessuno mai li incontra e non incontrano mai nessuno, ma affluiti da tutta Italia per questo appuntamento annuale che gli restituisce “visibilità”. Tra loro, quest’anno, parecchi giovani e meno giacche e cravatte di ordinanza. Nella composizione di questo corteo è evidente un rapporto fondato sulla reciprocità: il primo maggio a Milano rende – per un giorno – visibile un’organizzazione per altri versi ectoplasmica; ma senza di loro, le organizzazioni ufficiali non avrebbero probabilmente nemmeno i numeri per fare un corteo. Una palese manifestazione di stanchezza e di insignificanza.
Al pomeriggio, alla street parade del May day, la processione dei devoti di San Precario ha visto sfilare, come ormai da undici anni, una marea di giovani: colorati, vivaci, chiassosi, entusiasti, in gran parte mobilitati dai centri sociali. In mezzo qualche arzillo vecchietto di un’altra generazione (tra cui il sottoscritto, decano del precariato), una foltissima rappresentanza di migranti, molti bambini in braccio o in carrozzina; molta birra, venduta dai camion, per finanziare il movimento, o da ambulanti improvvisati, per finanziare se stessi, e bevuta a canna; molte danze e un assordante, ma straordinaria, banda di tamburi. A comporre questo popolo ancora in gran parte sconosciuto alla sociologia, c’erano verosimilmente parecchi commessi in sciopero contro l’apertura di negozi e supermercati decretata dalla Giunta comunale (e molti sicuramente ne mancavano, perché lo sciopero per i precari non è un diritto); poi, molti ragazzi dei call-center e di cooperative di facchinaggio, e infermieri, babysitter, postini, insegnanti, educatori, intervistatori, stagisti; molti studenti in attesa di, o impegnati in, ingaggi a part-time o a tempo determinato (e molti di più semplicemente in attesa della futura disoccupazione). Forte la presenza della CUB (confederazione unitaria di base), minore quella dei Cobas; qualche bandiera di Vendola e Rifondazione. Quest’anno il May day si è presentato con una piattaforma tanto incisiva quanto ampia, portata in giro sui camion della parata: reddito e welfare di cittadinanza, casa, accesso ai beni comuni (sapere, mobilità, acqua, servizi sociali), cittadinanza per i migranti e politiche di accoglienza. E la proposta di uno sciopero generale che non esclude il ricorso a forme di sabotaggio.
La prima idea che viene in mente da questo confronto a distanza è che i manifestanti del mattino, invece di preoccuparsi della sempre più riottosa disponibilità di due delle tre confederazioni a celebrare in modo unitario il primo maggio, dovrebbero prendere atto della realtà; non solo dei numeri, ma soprattutto della vitalità e delle ragioni dei manifestanti del pomeriggio; del fatto cioè che sono questi a rappresentare l’avvenire (anche se non più “il sol dell’avvenire”, verosimilmente tramontato per sempre). E, comunque vada a finire, ad averlo nelle loro mani, se non altro per ragioni generazionali. Anche solo per questo, sono quelli del mattino che dovrebbero mettersi al seguito del corteo del pomeriggio; magari trascinandosi dietro anche la banda del Comune e i lemuri di Lotta Comunista. Per poi, ovviamente, cercare di mischiarsi, per cercare di affievolire prima e di annullare poi, quella separatezza.
A molti può sembrare una mossa inconcepibile, ma si tratterebbe di un riconoscimento simbolico di una serie di dati di fatto incontestabili, che potrebbe e dovrebbe comunque preludere a una messa in discussione, per tutti, della propria collocazione nel tessuto produttivo, nel conflitto sociale, nella lotta politica, nella comprensione del presente. Perché non ci si può trincerare nella difesa di postazioni sempre più difficili da difendere – e progressivamente smantellate a ritmi ogni giorno più stretti – senza prospettare delle vere alternative. Alternative che non possono che nascere da un confronto serrato tra universi sociali, culturali, generazionali e anche esistenziali che, vitali o meno che siano, hanno tutto da perdere e niente da guadagnare dalla loro separatezza. E’ il percorso, più facile da enunciare che da seguire con coerenza, lungo cui si è impegnato a lavorare il raggruppamento Uniti contro la crisi, a partire dalle sue tre componenti fondamentali che hanno dato vita alla manifestazione del 26 ottobre scorso, al seminario di Marghera del 22 febbraio di quest’anno, e che sono oggi impegnate nella riuscita e nella generalizzazione dello sciopero del prossimo 6 maggio: la Fiom, alcuni centri sociali, alcune organizzazioni del movimento degli studenti, più molti altri sostenitori, tra cui questo giornale.
L’alternativa da delineare dovrà porsi come compito prioritario quello di concepire e costruire un futuro decente e, quindi, una collocazione sociale e produttiva diversa, alle nuove generazioni. Non una collocazione precostituita, né a margine né all’interno dei trend disastrosi che da tempo caratterizzano occupazione, reddito, salute, ambiente e cultura a livello planetario; bensì una collocazione immaginata, concepita e costruita insieme, con la lotta e in un processo di elaborazione condiviso e in progress; ma anche, e soprattutto, con il coraggio e la determinazione di tornare a pensare alla grande, e di mettere tutti di fronte alla necessità di farlo.
Il popolo del May day è pieno di idee, è carico di vitalità, è colmo di aspettative anche se (ma non tutti) povero di cultura: grazie soprattutto all’establishment che governa il paese da anni e che ha soprattutto bisogno di sudditi ignoranti e cretini. L’immagine che quel popolo dà di sé è il contrario di quella di una “scomparsa del desiderio” che oggi si imputa alla sua generazione; anche se tra di loro, come forse in nessun altro posto al mondo, è assente la figura del padre, quella che dovrebbe rappresentare e imporra una norma. Sono assenti cioè gli uomini e le donne delle generazioni precedenti: anche e soprattutto con l’esempio, quello che potrebbe e dovrebbe sopperire all’eclisse delle consuetudini, delle regole e delle norme consolidate. Quel desiderio, che attende di configurarsi in progetto, nasce in realtà dal ritrovarsi insieme, dal rovesciare in orgoglio di gruppo, se non “di classe”, i termini della propria emarginazione; dalla ricerca, nell’azione collettiva, di una propria autonomia: cioè dell’unica vera cura di quella rassegnazione che in nessun altro posto è così visibile come nel corteo del mattino del primo maggio a Milano.
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