Il miracolo campagno di Berlusconi si chiama discarica (“la Repubblica”, 24 ottobre 2010)
I principi di una corretta gestione dei rifiuti sono stati fissati dall’OCSE e da una direttiva dell’allora Comunità europea quasi cinquant’anni fa: primo, ridurre (soprattutto imballaggi e articoli usa e getta; ma anche – con il compostaggio in giardino o sul balcone, che li trasforma in terriccio – gli avanzi di cucina); secondo, riciclare, cioè recuperare in nuovi cicli produttivi i material di cui sono composti i rifiuti: si fa con la raccolta differenziata e le “piattaforme” di recupero, ma anche con una separazione meccanica della frazione indifferenziata e con il compostaggio dei rifiuti organici; terzo, recuperare energia da ciò che non si può riciclare: bruciando le frazioni combustibili residue, in impianti che possono anche non essere inceneritori; e gassificando la frazione organica); quarto, portare in discarica solo ciò che avanza.
Questi principi erano quindi già da tempo in vigore nel 1994, quando in Campania è stato istituito il Commissario straordinario alla gestione dei rifiuti; che, anche se a volte il ruolo è stato attribuito al Presidente della Regione, è sempre una figura che risponde del suo operato non al Consiglio regionale e alla popolazione locale, ma al Governo nazionale. Sono pertanto i governi di destra e di sinistra che si sono succeduti da allora a dover rispondere del disastro che hanno combinato. Perché in questi sedici anni, di quello che prescrivono quei principi, in Campania non è stato fatto né tentato nulla; anche se per non fare niente è stato speso l’equivalente di oltre due miliardi di euro; quindi è ingiusto, oggi come ieri, darne la colpa a una popolazione vessata da sedici anni di gestione straordinaria dei rifiuti, dove tutto era permesso ai commissari e niente era controllato o controllabile; e dopo anni, per di più, di precedenti gestioni straordinarie, prima per il colera (dal 1973) e poi per il terremoto (dal 1980): un esempio da manuale di quella shock economy (lo sfruttamento a fini di lucro dei disastri, naturali o artificiali) raccontata da Naomi Klein.
Limitandoci agli ultimi tre anni, le politiche di riduzione non sono state nemmeno prese in considerazione; eppure l’emergenza imponeva soprattutto quelle, che sono a costo zero. La raccolta differenziata era stata da tempo affidata a consorzi obbligatori di Comuni, riempiti di personale – ex LSU (lavoratori socialmente utili) e altro – e in molti casi infiltrati dalla camorra, senza mai dotarli di mezzi e attrezzature per operare e di un’organizzazione del lavoro degna di questo nome. Si stima che tra gestioni private, pubbliche e miste, gli addetti ai rifiuti urbani in Campania siano oltre 25mila, mentre un rapporto ragionevole con la popolazione non dovrebbe far loro superare i 6-8mila. Oggi questi consorzi, con il loro personale, i loro debiti, i loro crediti inesigibili, i loro gestori, sono stati riunificati e lasciati in eredità alle Province, che dovrebbero provvedere, senza altri mezzi, alla gestione di tutto il ciclo dei rifiuti urbani, abbandonato in stato comatoso da Bertolaso. Il problema principale è questo, ed è un problema sociale. Senza una soluzione per i lavoratori in esubero, riorganizzare il ciclo dei rifiuti è impossibile. Basti pensare che il comune di Carinola è stato commissariato dal ministro Maroni perché, per fare la raccolta differenziata – e la faceva bene – aveva rifiutato di affidarne la gestione a uno di quei consorzi.
Peggio ancora è andata per la separazione meccanica. La Campania, grazie a fondi UE, è la regione d’Italia, e forse d’Europa, più dotata di impianti di trattamento meccanico biologico: cioè Stir (già Cdr). Ce ne sono sette, con una capacità che eccede l’intera produzione regionale di rifiuti; con poche modifiche potrebbero permettere anche il riciclo – senza bisogno di successivo incenerimento, che è un processo molto costoso, oltre che nocivo – di quasi tutto quello che vi entra. Ma quegli impianti erano stati mandati in malora dal gruppo Impregilo (cui, fino al 2006, era stata affidata la gestione di tutto il ciclo dei rifiuti campani), che i rifiuti li voleva solo impacchettare, senza perdere tempo nel separarli, per accumularli in vista degli incentivi che avrebbe incassato bruciandoli nell’inceneritore di Acerra: di qui i sei milioni di ecoballe accumulati nelle campagne di Napoli e Caserta. Berlusconi (con la legge 123/08) aveva deciso di chiudere questi impianti e venderli ai privati come rottame, perché voleva anche lui bruciare tutto senza separare il “secco” dall’”umido”. La stessa legge prescriveva infatti la costruzione di quattro inceneritori (poi diventati cinque), con una capacità che eccedeva anch’essa l’intera produzione regionale di rifiuti; e ciò nonostante che, sempre per la stessa legge, entro il 2010 si dovesse raggiungere il 50 per cento di raccolta differenziata (esempio da manuale di leggi fatte senza crederci). Ma siccome di inceneritori ce ne è – e ce ne sarà per molto tempo – uno solo, quello di Acerra, inaugurato in pompa magna l’anno scorso, ma che funziona poco e male, Bertolaso era corso ai ripari: aveva cambiato il nome agli impianti (da Cdr a Stir), utilizzandoli come frullini per tritare rifiuti indifferenziati e poi mandarli a bruciare nell’inceneritore o a putrefare nelle discariche. Di qui i miasmi che appestano la popolazione che ci abita accanto, oltre al percolato che dilava nelle falde e al metano che ne esala, moltiplicando il contributo italiano all’effetto serra. Di impianti di compostaggio, poi, neanche a parlarne: quelli che già c’erano sono stati usati come depositi di ecoballe e in Campania i Comuni che fanno la raccolta differenziata dell’organico devono spedirlo in Veneto o in Sicilia a costi proibitivi.
Dunque, per far “sparire” (dalla vista) i rifiuti non restavano che le discariche. La legge 123/2008 ne impone undici (poi diventate dodici). Sono quasi tutte in aree naturalistiche protette, in cui la legge italiana e la normativa europea vieta di insediarle (esempio da manuale di una legge che ne contraddice un’altra senza abrogarla). Prima di lasciare, Bertolaso, usando l’esercito – come già aveva fatto prima di lui De Gennaro con Prodi – per raccogliere i rifiuti per strada, ma soprattutto per difendere discariche e inceneritore dallo sguardo indiscreto di sindaci e popolazione, aveva già quasi riempite tutte le discariche esistenti al momento del suo insediamento; ne aveva fatta costruire una nuova (quella, contestatissima, di Chiaiano), per poi lasciare la patata bollente delle due di Terzigno, nel parco del Vesuvio, oggi epicentro della rivolta, a chi sarebbe venuto dopo di lui: senza soldi, senza poteri, senza progetti. Dunque, Berlusconi in Campania ha fatto un miracolo: la discarica. E i risultati – prevedibili, e previsti da chi non voleva chiudere gli occhi – si vedono.
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