Il ritorno di Greta
Greta Thumberg è tornata a dare il meglio di sé al vertice austriaco sul mondo promosso da Arnold Schwarzenegger, con Frau Merkel, Antonio Guterres ed altri. Rivolgendosi ancora una volta a tutti i potenti del mondo, ma per farsi ascoltare da tutti coloro che potenti non sono, ha spiattellato che nei sei anni che ci separano dal vertice di Parigi, politici, finanzieri e grandi industriali (la crème di Davos) ci hanno riempiti di parole, ma non hanno fatto niente per avvicinarci agli obiettivi di decarbonizzazione fissati. Anzi, hanno fatto, stanno facendo e si apprestano a fare esattamente l’opposto: la loro “lotta per il clima” serve solo a mascherare e giustificare la continuazione di una politica fondata sui fossili, cercando nuove occasioni di business.
Questa accusa coglie in pieno anche il PNRR italiano, il suo padre, il RRF della Commissione europea, e la sua madre, il programma NextgenerationEU, che altro non sono che armi di distrazione di massa, finalizzate a bloccare l’attenzione – e il confronto, dove c’è – intorno a misure e progetti assolutamente inconsistenti, se non controproducenti, mentre il pianeta va a fuoco. A fuoco: nello stesso giorno in cui si registravano a Vancouver 50 °C, il Parlamento italiano ha votato, alla Camera, il ponte sullo stretto di Messina (da finanziare non con il PNRR, bensì con un fondo, detto “fondone”, che Draghi ha fatto aggiungere, a debito, ai fondi, anch’essi a debito, del PNRR, per “non lasciare indietro nessuno”: in questo caso le lobby del cemento). D’altronde, non è stato forse il Senato italiano, forte delle sue competenze, a votare, anni fa, che il cambiamento climatico non esiste?
Tra le parole senza fatti o, meglio, con fatti che le contraddicono, di cui parla Greta, spicca l’istituzione in Italia di un Ministero della Transizione ecologica. Ora, se transizione ecologica significa – e non può significare altro; se no, verso che cosa mai si transita? – un cambiamento radicale, a partire dall’abbandono del presupposto su cui si basa tutto lo stato di cose attuale, cioè il mito fasullo e letale della “crescita” (che altro non è che accumulazione del capitale), è evidente che essa non può non coinvolgere profondamente comportamenti, stili di vita e assetti sociali di tutta la popolazione; oltre, ovviamente, alla determinazione di che cosa, con che cosa, per chi e come si produce. Il primo compito di un Ministero della Transizione ecologica (e del Governo che ne fa proprie le finalità) avrebbe dovuto essere, quindi, il lancio di una grande campagna di informazione: sul perché di questa svolta, sui rischi che corrono il pianeta, il paese e la vita di ciascuno; e la conseguente apertura di un confronto generale (non era certo tale la kermesse organizzata a suo tempo dal secondo Governo Conte a villa Pamphili), coinvolgendo tutte le istanze della “società civile” – associazioni, comitati, sindacati, scuole e Università, centri di ricerca, mondo della cultura – sulle alternative che ci troviamo di fronte: sia a livello planetario che a livello locale; ciascuno a fare i conti nel proprio territorio con la realtà in cui è inserito e in cui può operare. Le dimensioni del problema sono d’altronde tali che non si può sperare di ottenere dei risultati – se si vogliono veramente ottenere – che procedendo così. E se il governo non lo fa, la prima conseguenza da trarre è che di promuovere quel confronto dobbiamo farci carico noi. Chi? Tutti, dove e come si può. Mettendo al centro non la crescita ma la cura delle persone, del vivente e della Terra.
Ma invece di una campagna di informazione e di un grande confronto ci siamo ritrovati le continue esternazioni del ministro Cingolani, peraltro in frequente contraddizione tra loro, ma che, sostanzialmente, mirano a rassicurare che non c’è da cambiare gran che: il gas sostituirà – un po’ per volta – il petrolio come “combustibile di transizione” (verso che?), costruendo nuovi impianti e pipeline la cui vita utile va ben al di là del 2050, anno in cui il gas dovrebbe scomparire; l’idrogeno verde deve aspettare (non è ancora maturo); con le rinnovabili non c’è fretta, tanto arriverà la fusione nucleare, o anche la fissione in “piccoli impianti” distribuiti sul territorio; la dieta proteica è essenziale, quindi largo agli allevamenti industriali; l’agricoltura sostenibile si fa con l’agrofotovoltaico (pannelli in alto e ortaggi sotto), ecc.
Ma se il ministro della Transizione sembra sensibile soprattutto alla lobby del gas (Eni ed Enel), il PNRR, nel suo insieme, destina il giusto tributo anche a quella del cemento e delle Grandi opere: il piano pullula di autostrade, aeroporti e treni ad Alta velocità, chiamati infrastrutture, tutti finanziati a spese del trasporto locale (compreso il TAV Torino-Lione, ricompreso nel PNRR, senza nominarlo, nelle vesti del fallito Ten-T).
E qui, anche senza entrare nei dettagli (che peraltro il PNRR evita accuratamente), la prima e fondamentale domanda da fare, se si aprisse, come si dovrà aprire, ma da basso, un dibattito sulla transizione ecologica è: ma serve un treno ad alta velocità, o un ponte di quattro chilometri, per collegare regioni devastate dagli incendi, dove, di questo passo, si dovrà reggere a temperature di 50°C come a Vancouver (che è molto più a nord), per fare arrivare dei turisti su spiagge ormai sommerse dall’innalzamento del livello del mare? O serve portare altro gas in Italia cercando di seppellirne le emissioni sottoterra, in una regione già sconvolta da un terremoto di dubbia origine, lasciando in eredità alle future generazioni, ma forse anche a questa, una bomba di CO2 sotto pressione, pronta ad aprirsi un varco verso la superficie per restituire all’atmosfera tutta la CO2 fittiziamente sottrattale? Ma domande come queste chi ci governa se le è mai fatte?