In ricordo di Paolo Leon
Non entro, se non marginalmente, nella valutazione dei contributi scientifici di Paolo Leon perché non ho le competenze per farlo. Lo ricordo soprattutto come un esempio dal punto di vista umano, per il suo modo di lavorare e per il suo impegno politico.
Dal punto di vista umano, lo ricordo per la sua grande apertura nei confronti di persone che avevano storie, orientamenti culturali e prospettive diverse dalle sue. Sono stato accolto da Paolo tra i collaboratori del Cles quando avevo quasi quarant’anni e avevo speso la maggior parte della mia vita adulta in una militanza a tempo pieno in un’organizzazione di quella che qualche anno prima si chiamava sinistra rivoluzionaria: un universo lontano dalle posizioni in cui si era svolto allora, e si sarebbe sviluppato anche in seguito, il suo impegno politico. Inoltre non avevo alcun curriculum e nemmeno una laurea in economia. Ne ho una in filosofia. Ma non sono entrato al Cles per raccomandazione. Al Cles le raccomandazioni non c’erano e non ci sono. Sono stato presentato da due amici che già collaboravano con il centro e mi è stato subito affidato un compito di responsabilità: l’indagine sul mercato del lavoro all’interno di un progetto di sviluppo locale nella regione di Addis Abeba. Paolo sapeva valutare, coltivare e sviluppare le potenzialità dei suoi collaboratori.
Là ho scoperto di non essere affatto un’eccezione: i membri italiani del team del progetto, anche se con qualche competenza maggiore delle mie, avevano quasi tutti un passato politico simile al mio, peraltro distribuito tra tutti i numerosissimi gruppi della sinistra extraparlamentare – non sto qui a elencarveli – ivi compreso un collega che aveva anche subito una carcerazione per l’accusa, da cui sarebbe poi stato prosciolto in istruttoria, di appartenenza alle Brigate Rosse. Eppure, nel nostro lavoro comune sotto la direzione di Paolo si sarebbe creata rapidamente una omogeneità nell’impostazione e nello stile di lavoro che è uno dei punti di forza del modo di operare del Cles. Paolo aveva capito, e questa intuizione non gli veniva certo dalla sua formazione accademica, che nelle vicende politiche attraversate da ciascuno di noi c’era anche un patrimonio di esperienza, di conoscenza del mondo reale poco noto, e di intelligenza di cose e persone che rischiava di andare disperso – e infatti è andato in gran parte disperso – ma che invece poteva e doveva essere valorizzato. Ed è quello che è riuscito a fare. Ho già raccontato questa e altre vicende legate al mio ruolo di ricercatore del Cles in un libro autobiografico che si intitola A casa. Per una parte della mia vita, non solo professionale, il Cles è stato per me una casa.
Paolo ha sempre diffidato dei modelli astratti, tanto più se estremamente sofisticati in termini matematici, con cui la disciplina economica mainstream affronta, bisogna dire con poco successo, l’analisi delle situazioni reali. Nei suoi libri anche i ragionamenti più complessi sono sempre esposti in forma discorsiva, didascalica, con argomentazioni che possono essere seguite anche da chi è digiuno della materia. In questo si era sicuramente avvantaggiato della sua pratica professionale al Cles. Non fermarti ai modelli astratti, mi diceva; cerca di conoscerli, ma poi vai oltre. Cerca di capire come stanno veramente le cose: quali sono le forze in campo; quali sono, se ne hanno, le loro strategie; quali i loro punti di forza e di debolezza; quali le opportunità e i vincoli che incontrano o che potrebbero incontrare. Anche quando l’obiettivo era quello di raggiungere dei risultati in termini quantitativi, come il Valore attuale netto o il Tasso interno di rendimento di un progetto, per esempio nella valutazione dei progetti presentati al FIO (Fondo Investimenti Occupazione) degli anni ‘80, quello che lo interessava di più era mettere ordine nel progetto, dargli un senso, una utilità reale e un futuro, anche a costo di imporne un cambiamento sostanziale. Poi i risultati quantitativi in un modo o nell’altro si facevano uscir fuori…
Infine, in politica, Paolo e io abbiamo avuto percorsi e collocazioni politiche molto differenti, ma, ogni volta che ci capitava di parlarne, sulla valutazione di uomini e vicende per lo più ci capitava di convergere totalmente.
In particolare mi univa a lui una totale diffidenza nei confronti della cosiddetta “cultura del merito”, che sia Paolo che io consideravamo una ideologia di copertura di un assetto sociale fondato su una competitività universale non solo tra imprese ma anche e soprattutto tra persone. Un assetto finalizzato alla legittimazione di gerarchie esistenti che con il merito – quello che può essere riconosciuto solo in una valutazione tra pari – non avevano nulla a che fare. Per questo, a conclusione di questo mio ricordo molto personale, desidero leggere poche righe che riguardano questo argomento, tratto dal suo libro Il capitale e lo Stato: “L’ideologia del merito sottintende anche la gerarchia. Chi giudica il merito dovrebbe essere altrettanto o più meritevole del candidato, ma non c’è alcuna assicurazione che ciò avvenga, perché per definizione la gerarchia precede il giudizio sul merito, altrimenti i meritevoli esisterebbero già, e non sarebbe necessaria alcuna proceduta formale di selezione, che invece implica un basso merito dei giudici. Nella costruzione di indicatore oggettivi di merito si finisce quasi inevitabilmente per premiare il conformismo, dato che ogni novità (che sarebbe il fine del merito) trascende gli indicatori oggettivi”.