La bancarotta dei tecnici (articolo inedito, 4 giugno 2012)
Come poteva prevedere qualsiasi persona di buon senso, purché onestamente informata, il decreto “Salvaitalia” non ha salvato né salverà l’Italia, ma la sta portando al disastro; il decreto “Crescitalia” non l’ha fatta né la farà crescere; il decreto “semplificazione” ha complicato la vita a tutti (basta pensare al calcolo dell’Imu). In compenso la nuova normativa sulle pensioni ha allontanato per tutti e tutte l’età del pensionamento, lasciando alcune centinaia di lavoratori senza stipendio né pensione e togliendo altrettante opportunità di lavoro ai giovani che ne cercano uno; la legge sul mercato del lavoro distruggerà le poche garanzie di cui ancora godevano i lavoratori occupati, senza niente dare ai precari e devastando il sistema degli ammortizzatori sociali; e questo mentre la disoccupazione ufficiale è sopra l’11 per cento, quella reale sopra il 17, quella dei giovani sopra il 36 (e gli ultimi 600mila nuovi disoccupati li ha fatti proprio il Governo Monti). Per concludere, la “riforma” dell’art. 81 della Costituzione ha messo fuori legge Keynes e la migliore scienza economica del ‘900 (gli spiccheranno contro anche un mandato di cattura?), privando non solo i cittadini italiani, ma anche il loro governo, del più importante strumento di gestione della politica economica. Ora i partiti che sostengono il governo Monti stanno manomettendo anche le regole fondamentali del costituzionalismo: la separazione tra potere legislativo e potere esecutivo. A che cosa dobbiamo tutto ciò?
Un dato fondamentale che non va sottovalutato (all’estero viene dato per scontato, mentre in Italia nessuno ne parla più) è che al governo dell’Italia e dell’Europa sono stati messi gli uomini della Goldman Sachs (Monti, Draghi, e tanti loro simili), cioè della banca più potente e pervasiva della finanza internazionale, coinvolta in molteplici episodi di malversazione. Si tratta di personaggi legati tra loro, più ancora che da interessi personali (che certo non mancano), da una comunanza di cultura – quella che ha promosso le loro carriere – che mette al centro del mondo la banca, la finanza, e fa ruotare intorno ad esse tutto il resto del creato. Ma non va sottovalutato il tabù che finora solo Paul Krugman ha osato spezzare riferendosi ai consulenti finanziari di Obama, pescati quasi tutti tra i più organici esponenti di Wall Street: vengono scelti perché si ritiene che siano competenti, ha scritto, mentre sono dei solenni ignoranti. È esattamente quello che possiamo dire di Draghi e Monti (che non hanno mai nominato nei loro discorsi cose come l’ambiente e la riconversione produttiva, come se il problema non esistesse) e della combriccola di professori e banchieri che li circonda: una ha studiato per quarant’anni le pensioni e fatto carriera per questo, ma ignora un istituto come lo “scivolo” – proprio mentre lo stava utilizzando anche il suo collega Passera per Termini Imerese – e lascia sul lastrico 300mila lavoratori e più; l’altro saccheggia la Cassa Depositi e Prestiti – un istituto creato per finanziare gli investimenti degli Enti locali – come fosse cosa sua per finanziare Grandi opere inutili e nocive (autostrade, metanodotti, gassificatori e perforazioni petrolifere) perché secondo lui non esistono altre “ideone” per fare politica industriale: una idea, quella di politica industriale, che il liberismo teorico aborre – giacché a sistemare tutto ci dovrebbe pensare il mercato – ma che poi pratica, con il denaro pubblico, quanto e più del detestato “statalismo”. Il ministro dell’istruzione, che forse non ha mai letto la Lettera a una professoressa della scuola di Barbiana, vuole riformare scuola e università reintroducendo “il primo della classe”. E il primo della classe è sempre stato e sempre sarà Pierino, il figlio del medico: quello che “da grande” ci governa da sempre, con i risultati che si vedono. Ma il meglio lo ha dato il Premier, che, dei suoi decreti aveva sentenziato quanto segue: aumenteranno il PIL dell’11 per cento; i salari del 12; i consumi dell’8; l’occupazione dell’8; gli investimenti del 18. Quando? Boh! A fare i tecnici così sono buoni tutti.
Non è difficile, per persone di buon senso, capire che cosa manca nel modo di ragionare di Monti e compagnia. Mancano soprattutto due cose: la prima è una visione di insieme dei problemi. Monti, come un bravo scolaretto, si è messo a fare “i compiti a casa” (spennare salari, pensioni, occupazione e bilanci comunali) che la Merkel gli aveva assegnato. Ma la cisi italiana, come quelle greca, portoghese, irlandese e spagnola, e chissà quante altre ancora, non possono essere affrontate in ambiti nazionali, facendo “i compiti a casa”; perché – lo sanno tutti – non sono che manifestazioni di processi che si sviluppano e investono tutta l’Europa, e anche il resto del mondo. Affrontarli significa prendere posizione e avere il coraggio e la cultura per andare a uno scontro con chi è all’origine di quella crisi: cioè con la finanza internazionale. Monti, fin che ha potuto, si è accreditato come il più servile seguace della Merkel; con i risultati che si vedono. Adesso che la Merkel sembra caduta in disgrazia, cerca di accreditarsi, con l’aiuto dei media di regime, come uno dei “poli” di un asse con Hollande: cosa ridicola se si pensa alla cultura antisociale e antisocialista del nostro Premier.
La seconda cosa che manca a Monti e a tutti coloro che ne sostengono il governo è l’idea che un mondo diverso non solo è possibile, ma necessario e urgente. L’Europa dei combustibili fossili e del nucleare, dell’industria dell’auto e delle grandi opere, delle delocalizzazioni e dell’export a tutti i costi è arrivata al capolinea. Ma l’unica ricetta che economisti di destra e di sinistra riescono a suggerire è quella di promuovere “la ripresa”: di riprendere quanto prima a produrre le stesse cose; e a produrne sempre di più: soprattutto per esportarle. Come se l’economia tedesca fosse un modello e i suoi successi non fossero la conseguenza diretta delle disgrazie dei suoi partner, cioè anche delle nostre, a cui tutto l’edificio attuale dell’Unione europea ha contribuito, mettendo tutti i governi dei paesi membri in mano alla finanza internazionale.
Da qualche tempo, nello stesso giornale (quello che promuove la “lista civica” dei fiancheggiatori “puliti” del PD) dove ci viene spiegato tutti i giorni che alle ricette di Draghi e dell’immaginario asse Monti-Hollande “non c’è alternativa”, le più prestigiose firme ormai documentano altrettanto spesso che negli Usa le energie rinnovabili stanno rimettendo in moto l’occupazione (mentre il resto dell’economia langue) e stanno invertendo quei processi di delocalizzazione che hanno trasformato l’economia degli States in un casinò finanziario; che l’agricoltura ecologica e a chilometri zero è la ricetta dell’avvenire; che le Grandi opere “alla Passera” sono la rovina dell’Italia e che bisogna impegnarsi in mille “piccole opere” di messa in sicurezza di scuole, beni culturali, fabbriche, territorio, coste; che la finanza internazionale e nostrana è poco meno di un’associazione a delinquere, ecc. La schizofrenia del pensiero mainstream sta toccando vette ineguagliate. Per venire a capo del processo di liquefazione in corso, non solo dei partiti e del sistema politico del nostro paese e della non-cultura che li impregna, ma, con tempi e modalità diverse, dell’intero continente – e il resto del mondo, o gran parte di esso, non sta molto meglio – bisogna capire perché quei processi non riescono a farsi programma e impulso a una trasformazione radicale dei rapporti sociali; magari a partire dalle piccole cose che, moltiplicate per milioni, possono diventare immense. Certamente gli interessi consolidati di un mondo in frantumi – e la loro forza, non solo finanziaria, ma anche e soprattutto militare – contano tantissimo. E ancora di più conta la paura di un futuro incerto: la paura dello spread, del default, del crack, dello slump; e quanto più vago e incomprensibile è il termine che la evoca, tanto più corposa e paralizzante si fa la sua minaccia. Ma la strada per uscirne c’è e non è la “ripresa”; e non è la “crescita” continuamente invocata da chi non ha fatto che promuovere e accelerare il disastro. È una democrazia partecipativa estesa al campo economico, l’autogoverno di ogni comunità sui processi produttivi, sui servizi locali, su sistemi di consumo e di fruizione condivisa dei beni comuni, in modo da valorizzare al massimo le facoltà, le competenze e le potenzialità di ciascuno di noi: quelle risorse di cui le forze economiche al potere non sanno “che farsene” perché l’organizzazione del lavoro, del consumo, dei rapporti sociali che risponde ai loro interessi è quella di una guerra di tutti contro tutti (la fatidica “competitività”) in cui lavoratori, cittadini, utenti, consumatori e contribuenti non sono che soldati da mandare all’assalto: carne da cannone da cui pretendere sempre di più e a cui dare sempre di meno. Democrazia non è decidere una volta ogni tanto, ciascuno per conto suo, a chi dare il nostro voto perché niente cambi. Democrazia è mettersi al lavoro tutti insieme per fare emergere e valorizzare le tante cose che ciascuno di noi sa e sa fare e la nostra volontà di decidere, per quanto è possibile, il nostro destino. E per farlo dobbiamo innanzitutto convincerci che un altro mondo è possibile.
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