La conversione ecologica del trasporto merci (“il manifesto”, 29 gennaio 2012)
Il Governo Monti non porta nessuna responsabilità diretta per le condizioni che hanno provocato le rivolte dei “forconi” in Sicilia, (pescatori e agricoltori, ma soprattutto autotrasportatori) e che hanno bloccato la distribuzione delle merci anche in tutto il resto del paese. Le condizioni che stanno mettendo alla fame molti di questi lavoratori e operatori risalgono al modo in cui i rispettivi settori sono andati organizzandosi nel corso del tempo, sotto molti dei precedenti governi. Va detto però che nessuna delle misure ora adottate (in particolare le presunte liberalizzazioni di autostrade, assicurazioni e distribuzione di combustibili) apporta a questi lavoratori il minimo sollievo, mentre il Governo sembra orientato a cercare di pacificarli con una politica delle mance (sconto sulle tariffe autostradali e sulle accise sul carburante) già incorsa più volte in procedure di infrazione da parte della Commissione europea. Non è in questo modo, e gli autotrasportatori lo sanno, che si possono risolvere i loro problemi.
Il fatto è che l’autotrasporto è già un sistema completamente liberalizzato e che la condizione attuale della maggioranza degli autotrasportatori (dipendenti, autonomi e “padroncini) è l’epitome, la rappresentazione perfetta, di come i meccanismi di mercato operano nel polarizzare società e lavoro. Perché gli autotrasportatori – quelli che guidano un camion, o che gestiscono qualche camion guidato da altri, e per lo più guidano anche loro; e si tratta di un lavoro pesante e logorante e sempre meno remunerato – non sono che l’ultimo anello di una catena che vede al capo opposto poche grandi società multinazionali di spedizione, nessuna delle quali è più italiana; si tratta di operatori tedeschi, olandesi, cinesi, statunitensi o di Singapore che da anni hanno inglobato la totalità delle maggiori imprese italiane. Quelle società controllano porti, flotte, vagoni, carghi, container, ma esercitano il loro ruolo grazie soprattutto alla loro potenza finanziaria, al controllo delle reti commerciali e ai software con cui mettono in contatto origini e di destinazioni delle merci e gestiscono l’intermodalità delle spedizioni. Nessuna di loro, credo, dispone direttamente di mezzi per il trasporto su gomma. Le tratte percorse con autoveicoli vengono subappaltate a una serie di società di autotrasporto minori, per lo più di dimensioni regionali, che di mezzi peraltro ne hanno pochi anche loro e ricorrono sempre più spesso a ulteriori subappalti; a cui capita di ingaggiare a loro volta degli autotrasportatori “indipendenti”. Accanto a queste imprese opera poi una serie di mediatori che non dispongono né di camion né di strutture e strumenti logistici (una vera porta aperta per la mafia), che reclutano, spesso “spot”, cioè sul momento e sempre più raramente con programmi e percorsi fissi, le società minori o i singoli padroncini: sia per conto di spedizionieri che di produttori che hanno consegne dirette da effettuare.
Da tempo, poi, il mercato europeo e italiano è stato invaso da operatori dell’Europa dell’Est che fanno concorrenza a quelli locali sia in ingresso che in uscita dai confini nazionali – e a volte anche al loro interno – e che praticano prezzi di dumping resi possibili da tre fattori: i loro mezzi non rispettano gli standard di sicurezza richiesti ai veicoli immatricolati in Italia; la loro guida è molto più spericolata sia per velocità che per durata; la remunerazione degli autisti è molto più bassa. Per godere di questi vantaggi molte società di trasporto già nazionali hanno trasferito la loro sede legale in qualche paese all’Est europeo, pur operando prevalentemente in Italia. Le tariffe dell’autotrasporto in conto terzi sono regolate per legge entro una forcella che prevede un massimo e un minimo in base alla consistenza del carico e alla lunghezza del percorso; ma gli sconti che vengono imposti vanno ben al di sotto del minimo consentito. Di fatto, attenersi alla normativa su tariffe, limiti di carico, durata della guida, velocità consentita e minimi contrattuali vuol dire uscire dal mercato. I controlli sono facilmente eludibili non senza – secondo quanto riportano molti operatori – connivenze della polizia stradale. Schiacciati tra i costi crescenti dei fattori produttivi, le tariffe in continua diminuzione e una rilevante riduzione dei traffici, le condizioni dei lavoratori e dei piccoli operatori del settore sono tra quelle che maggiormente risentono della crisi.
Tutto questo è noto e viene di quando in quando riportato dai media, peraltro senza molte indagini sulle cause né proposte per porvi rimedio. In realtà la situazione richiederebbe un’analisi più approfondita perché costituisce uno degli esempi più vistosi e chiari del modo in cui l’organizzazione di un intero settore produttivo si è strutturato per scaricare il rischio di impresa verso il basso, cioè sui lavoratori. La maggior parte dei lavoratori dell’autotrasporto non è costituita da dipendenti salariati ma da “padroncini”. Anche quando lavorano alle dipendenze di altri, se l’impresa è piccola i lavoratori sono indissolubilmente legati alle sue sorti, ai suoi alti e bassi, ai tempi sempre più lunghi dei pagamenti, che si riflettono direttamente sul modo e sui tempi con cui vengono remunerati. È lo stesso processo con cui in altri settori molto del lavoro impiegatizio è stato sostituito da lavoratori precari (“a progetto” o a partita Iva) “esternalizzati”. Ma a differenza di altri settori tipici del precariato, nel settore dell’autotrasporto l’investimento è consistente (un autoarticolato non costa meno di 200mila euro) e le imprese di spedizione, siano esse grandi gruppi o operatori intermedi, si liberano tanto dell’onere dell’investimento quanto del rischio di avere mezzi fermi, scaricando entrambi – oneri e rischio – direttamente sui lavoratori. Un processo analogo lo riscontriamo in molti altri settori, da quello dell’edilizia e dei grandi lavori – il paradigma qui è il TAV, su cui Ivan Cecconi ha scritto testi fondamentali – alla cantieristica. Insomma, l’autotrasporto non presenta affatto un assetto arcaico in attesa di una “modernizzazione” che solo il mercato potrà sviluppare, emarginando progressivamente la piccola impresa inefficiente a favore di strutture capitalistiche ben organizzate. La “modernizzazione” è già qui e il modello di impresa del liberismo è questo: e infatti il settore delle spedizioni presenta un grado di strutturazione e di concentrazione a livello internazionale da fare invidia a quelli energetico e alimentare; ma convive con – anzi, ha prodotto – l’estrema frammentazione del lavoro autonomo, che peraltro non è “lavoro autonomo di seconda generazione” (c’è il navigatore e c’è la scatola nera, ma i camion si guidano più o meno allo stesso modo di cent’anni fa).
Che fare? È chiaro che i problemi degli autotrasportatori – e delle altre categorie di lavoratori autonomi di prima generazione in lotta – non possono essere risolti con decreti dall’alto e meno che mai con delle mance che rischiano non solo di perpetuare, ma di approfondire, tutte le contraddizioni che li stanno trascinando verso la miseria. Devono essere i lavoratori stessi, dipendenti e autonomi, a coalizzarsi in strutture non solo rivendicative, come quelle attuali, ma operative: cioè in cooperative che affianchino al possesso e alla guida dei mezzi una parte consistente della gestione logistica, recuperando valore aggiunto al loro lavoro. Ed è chiaro che un processo del genere deve avere una interlocuzione con i governi sia nazionali che regionali perché mettano a disposizione le risorse e gli strumenti per operare questo passaggio; e soprattutto perché introducano forme di tutela adeguate contro la concorrenza selvaggia (altro che “liberalizzazioni”!). Ma è altrettanto chiaro che una conversione del trasporto su gomma deve fare i conti con processi – in parte in corso; in parte da promuovere – destinati a incidere profondamente sul numero e sul ruolo degli operatori del settore; processi a cui è vano contrapporre una mera resistenza e che occorre invece mettersi in condizione di assecondare. Il combustibile sarà sempre più caro; i costi dell’inquinamento e della congestione sono destinati a crescere; l’epoca del trasporto a basso costo sta per finire e le spedizioni transcontinetali e di lunga percorrenza dovranno ridimensionarsi a favore di una rilocalizzazione di molte produzioni – a partire, ma non solo, da quelle agricole e alimentari – in prossimità dei punti di smercio. Il trasporto su gomma dovrà convertirsi ai percorsi brevi e molto articolati e integrarsi con quello su ferro e via mare con sistemi intermodali che evitino la duplicazione dei vettori (su questo punto potrebbero essere le associazioni stesse dei trasportatori a farsi parte diligente di una proposta che solleciti, insieme alle altre categorie interessate, nuove forme di mobilità intermodale delle merci; e i relativi investimenti). Sono tutti problemi che non possono essere lasciati sulle spalle degli autotrasportatori; la conversione ecologica del trasporto merci, come di tutte le altre forme di mobilità e quella delle principali attività produttive deve essere presa in carico dall’intera comunità; a partire dal governo del territorio e dalle amministrazioni locali. Alcune delle quali oggi si riuniscono a Napoli per cominciare ad affrontare i termini e le condizioni di questo percorso.
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