Lavoro e conoscenza (“Left”, maggio 2013)
Conoscenza e lavoro sono essenziali per affrontare le tre principali dimensioni della crisi: ambientale, sociale ed economica.
Il tema della conoscenza va sottratto all’ambito ristretto della sua istituzionalizzazione nella scuola, nell’Università e nella ricerca – un confinamento che è stata la premessa del loro smantellamento – perché essa è anche e soprattutto un insieme di saperi diffusi e non valorizzati di cui tutti siamo in possesso grazie all’esperienza, ai nostri interessi, alla nostra vita quotidiana.
Il tema del lavoro, proprio come ha fatto la FIOM con la convocazione della manifestazione del prossimo 18 maggio a Roma, non può essere confinato al suo impiego in un’impresa; deve includere anche i precari costretti a un continuo andarivieni da un’azienda all’altra, i disoccupati, gli “scoraggiati”, il lavoro domestico di cura, che è anch’esso lavoro. Li accomuna una crescente traslazione del rischio dall’alta finanza (“troppo grande per fallire”) alle imprese che essa controlla e poi, attraverso la lunga catena del subappalto, ai lavorati resi responsabili, con le loro “pretese”, dell’insufficiente competitività delle aziende; e ai lavoratori precari, trasformati in “imprenditori di se stessi”; e al lavoro domestico, reso responsabile delle precarie condizioni di esistenza di tutti. A questo processo che cerca di fare della competizione di tutti contro tutti l’essenza della vita va opposta una solidarietà intercategoriale fondata sulla rivendicazione del reddito di cittadinanza e della democrazia sui luoghi di lavoro.
Poi va finalmente fatto un inventario dei danni di vent’anni di privatizzazioni e cinque di crisi. I grandi complessi produttivi stanno scomparendo. Della Fiat sopravvive una finzione solo grazie alla cassa integrazione. Finmeccanica vive di commesse militari e di spesa pubblica. Idem per Fincantieri. La siderurgia non era solo l’ILVA, che comunque dovrà ridimensionarsi; ma stanno chiudendo anche tutti gli altri impianti. Affondano anche molti distretti: per esempio quello della microelettronica, travolto dalla privatizzazione di Telecom. Quelle aziende non riapriranno più. Gli operai licenziati non rientreranno più in fabbrica; il loro know-how sta emigrando all’estero insieme al controllo dei relativi mercati; l’attitudine alla cooperazione è condannata a dissolversi.
Per salvare quel che ancora sopravvive di questo patrimonio occorrono programmi di transizione verso un’economia sostenibile come quello proposto da Gallino: uno Stato datore di lavoro di ultima istanza che assuma milioni di lavoratori in progetti di manutenzione e restauro del paese. Ma quei progetti possono essere elaborati solo a livello locale, dall’incontro tra lavoro (tutto: sia quello dipendente che quello aleatorio o non riconosciuto) e conoscenza (tutta: sia quella istituzionalizzata che quella informale) in sedi appropriate, che potremmo chiamare “Conferenze di produzione”. Programmi da imporre ai poteri locali, soprattutto ai Comuni, perché è a essi che può fare capo un triplice compito: offrire un punto di riferimento per l’aggregazione su basi locali delle forze disperse dei movimenti e delle lotte sociali; mobilitarsi per far saltare il patto di stabilità interno (premessa indispensabile per la messa in discussione della politica economica dell’Unione Europea); requisire ed espropriare le aziende che chiudono o non hanno prospettive per rivitalizzarle unendo lavoratori, istituzioni della ricerca e associazioni. La leva di questa transizione possono essere i servizi pubblici locali (energia, mobilità, gestione dei rifiuti e del ciclo idrico, mense, edilizia pubblica, salvaguardia degli assetti idrogeologici, ecc.), perché è con essi che si può promuovere sia una nuova domanda di beni e servizi sostenibili, sia uno sbocco alla riconversione di quelle aziende che altrimenti non hanno futuro.
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