L’EUROPA AL BIVIO
Sul cammino dell’alta finanza
L’Europa è a un bivio. Da una parte c’è una strada già segnata e intensamente frequentata dagli organi centrali dell’Unione europea (Commissione, Consiglio e BCE), dal Fondo Monetario Internazionale (IMF), dai Governi dei paesi membri, dai partiti che li sostengono e, soprattutto, dall’alta finanza che domina il mondo, che governa un’economia ormai globalizzata, che detta i principi e impone le scelte a cui tutti – comprese le costituzioni democratiche che intralciano le sue attività – devono adeguarsi. Forse non è stata prestata sufficiente attenzione allo slittamento semantico implicito nella graduale sostituzione del termine “mercato” (al singolare), fino a ieri presentato come l’ambiente ideale per risolvere, nel senso di una loro ottimizzare, i problemi di tutti e di ciascuno, con il termine “mercati” (al plurale), che indica invece, in ultima analisi, un numero molto ristretto di attori: i protagonisti dell’alta finanza internazionale, che “votano” al posto nostro, cioè che decidono che cosa debbano fare i governi di ogni paese e come debbano essere riformate leggi e costituzioni. Quello slittamento allude alla transizione da un meccanismo anonimo, perché agito da tutti e da ciascuno, ma in teoria perfettamente trasparente (un meccanismo che in realtà non è mai esistito allo stato “puro”) a un potere opaco – e anonimo solo perché i suoi detentori preferiscono agire nell’ombra – che ha finito per polarizzare in misura crescente la società verso le punte estreme di una ricchezza e un potere immensi, da un lato, e di una povertà e ricattabilità crescenti dall’altro. In questo scivolamento semantico si riflette cioè il passaggio da una versione ottimistica del liberismo, che vede nel trionfo dell’economia di mercato in tutti gli ambiti della vita sociale la strada del progresso e del benessere, a una visione cupa e pessimistica, che presenta “i mercati” come potenze oscure a cui bisogna però sottomettersi per non incorrere nella catastrofe (il default) che esse possono provocare in ogni momento.
La costruzione europea sotto attacco
In ogni caso quella strada, che è l’assetto attuale del capitalismo, oggi si manifesta in Europa nelle politiche di austerity imposte dall’alto, senza nessuna considerazione per i danni che provocano; ma domani potrebbe anche sfociare in orientamenti diversi o più laschi, che sarebbero però sempre imposti sotto il rigido controllo dell’alta finanza e nell’esclusivo interesse dei suoi profitti. Quella strada sta in realtà portando alla dissoluzione quell’edificio europeo alla cui costruzione avevano concorso, con alterno impegno, le politiche adottate dagli Stati membri nella seconda metà del secolo scorso, dopo il disastro provocato da due guerre mondiali e la sconfitta delle dittature che ne incarnavano la logica in tempo di pace. E sta anche portando l’intera popolazione dell’Unione – con l’eccezione del numero sempre più ristretto dei suoi beneficiari – verso un intenso e feroce peggioramento delle sue condizioni di vita, del suo tessuto produttivo, dell’occupazione, dei redditi da lavoro. Un peggioramento che oggi investe i paesi più periferici (i cosiddetti PIIGS) lungo una traiettoria di cui la Grecia rappresenta, agli occhi di tutti, l’esito finale e obbligato; ma che è destinato a coinvolgere progressivamente anche i paesi che oggi sembrano più “forti” e i cui governi, in nome di un successo ottenuto in gran parte a spese dei loro partner europei più deboli, hanno trasformato in religione le ragioni contingenti di quel loro precario successo.
Anche se non tutti i suoi membri hanno adottato la moneta unica, la dissoluzione della zona dell’euro sotto la pressione di spinte centrifughe o del progressivo accentramento del suo governo nelle mani di un numero di paesi sempre più ristretto trascinerebbe con sé l’intero impianto dell’Unione Europea, riportando tutto il continente a una condizione di guerra commerciale di tutti contro tutti, in un mondo globalizzato dove ormai nessuna singola nazione potrà mai più “farcela da sola”. Ma dato il livello di integrazione ormai raggiunto dall’Unione, un esito del genere potrebbe preludere anche a un progressivo sfaldamento dell’unità delle singole nazioni: non in direzione di un decentramento federalista dei poteri, bensì verso una proliferazione di conflitti acuti e forse persino di guerre locali, come è successo a suo tempo ai margini dell’Unione, nella ex-Jugoslavia; o rischia di succedere oggi in Ukraina, e non solo.
Infine, quella è una strada su cui transitano persone e merci sorde di fronte ai rischi a cui stanno portando il riscaldamento del pianeta, i mutamenti climatici che esso comporta, la produzione di armi di distruzione di massa, l’inquinamento dell’aria, dei suoli e dell’acqua, la distruzione della biodiversità, l’imperativo di produrre sempre di più perché, per il pensiero dominante, soltanto con la crescita infinita della manomissione dell’ambiente si possono garantire condizioni di vita decenti a tutti. Quelle condizioni che, viceversa, proprio perseguendo un approccio del genere le oligarchie al potere non sono più in grado di offrire a nessuno che non faccia parte della loro cerchia sempre più ristretta.
Un cantiere in costruzione
Dal lato opposto del bivio c’è una strada ancora in gran parte da costruire, non solo perché manca per ora di un progetto organico, ma soprattutto perché manca – o non è ancora emerso alla luce del sole – un numero di attori sufficiente a metterne all’ordine del giorno la costruzione, a realizzarla, e a cominciare a frequentarla, “sottraendo traffico” alla strada dominata dall’alta finanza. La direzione di questa strada non è univoca né del tutto chiara, ma non è nemmeno avvolta nelle nebbie: è una direzione in parte già consolidata negli obiettivi, nelle lotte e nelle buone pratiche di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori, di disoccupate e disoccupati, di cittadine e cittadini, e in parte ancora inespressa e tuttavia condivisa in forme vaghe e spesso indeterminate, da altri milioni e milioni di cittadine e cittadini europei. E’ la direzione di un’umanità che vuole rappacificarsi con l’ambiente in cui vive senza rinunciare ai benefici che l’evoluzione della scienza e della tecnica consente; che non per questo intende rinunciare al conflitto – che è la molla della civiltà e dell’innovazione – ma vorrebbe riportarlo quanto più possibile in un ambito che escluda sangue e violenza; che cerca in tutti i modi di difendere la propria dignità; che lavora per recuperare una propria autonomia e un benessere personale in contesti di condivisione e di crescita collettiva. Certo, espressi in questi termini, quegli obiettivi non sono ancora esplicitamente perseguiti dalla maggioranza della popolazione (siamo cioè ancora molto lontani da quel fatidico 99 per cento proclamato da Occupy Wall Street). Ma il numero degli attori che stanno lavorando, e da tempo, al cantiere di questa strada è molto maggiore di quanto le cronache, i media e l’indagine sociale ed economica lascino trasparire.
Non che manchino poi proposte, anche rigorosamente documentate e sostenute da un numero crescente di autorevoli studiosi – soprattutto in campo economico e giuridico – su come dovrebbe essere costruita questa nuova strada; o anche, più modestamente, su come tirarsi fuori dalla palude dell’austerity, i cui miasmi stanno soffocando ovunque benessere, convivenza civile e, sempre più, come in Grecia, persino la sopravvivenza.
Tre percorsi paralleli
L’attenzione dei più si concentra sui meccanismi che tengono bloccata la spesa pubblica, vagheggiando il ritorno a un mondo di ieri, in cui il sostegno ai redditi più bassi, il potenziamento degli istituti del welfare, e il supporto di un’industria di stato o di una politica industriale dirigista nei settori portanti dell’economia avevano garantito – in Europa, ma non nel mondo – trent’anni di sviluppo economico quasi ininterrotto. Premessa irrinunciabile di questa prospettiva è la rinegoziazione radicale dei trattati che vincolano le politiche economiche ai diktat della banca centrale: fiscal compact, pareggio di bilancio, two packs, ecc.
Altri fanno notare che limitarsi ad affidare la ripresa dell’occupazione, dei redditi e del benessere alla mera riproposizione di un massiccio sostegno a domanda e offerta di quelle produzioni che hanno sorretto la crescita di molte economie nel corso degli anni – magari supportandole ora anche con massicce iniezioni di ricerca di base e applicata finanziata dallo Stato – non farebbe che accelerare la corsa verso il baratro: verso un disastro planetario per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente; e verso una competizione sempre più serrata di tutti contro tutti, destinata a scaricarsi dalle imprese sui lavoratori perché producano sempre di più guadagnando sempre di meno: che è esattamente ciò che ha portato all’impasse dei giorni nostri.
Serve invece una radicale riconversione verso produzioni nuove che permettano di recuperare un rapporto rispettoso con l’ambiente in cui viviamo e di ricondurre l’attività economica e la gestione del territorio e delle comunità che lo abitano entro i limiti della sostenibilità: in campo energetico e in quelli dell’agricoltura e dell’alimentazione, innanzitutto; e, a seguire, nella manutenzione del territorio, del paesaggio, degli assetti urbani, del patrimonio edilizio e monumentale, nella gestione della mobilità, nel recupero di risorse dagli scarti della produzione e del consumo, oltreché, naturalmente, nei campi dell’istruzione, della ricerca e della promozione culturale. Una transizione che non può essere affidata solo all’innovazione tecnologica e alla sostituzione di prodotti a elevato impatto ambientale con prodotti maggiormente sostenibili, che è l’essenza di ciò che viene presentato come green economy; richiede un cambiamento radicale di paradigma nelle soluzioni organizzative e gestionali. In sintesi, un sovvertimento radicale dell’organizzazione sociale esistente.
Per questo, infine, molti mettono l’accento sulle trasformazioni di ordine politico e istituzionale che entrambi questi approcci richiedono come loro pre-condizione: l’Europa deve trasformare se stessa in una federazione di popoli governati in modo democratico (attualmente non lo sono affatto), decentrato (restituendo potere e risorse alle istituzioni della democrazia di prossimità: Comuni e territori, e non Stati nazionali e Regioni che, in molti casi, non sono che piccoli Stati), partecipato (affiancando una democrazia partecipativa di prossimità a quella rappresentativa), capace di sottoporre a un controllo dal basso gli strumenti centralizzati del governo dell’economia (la moneta, i tassi di interesse, la dimensione e la destinazione della spesa pubblica, la Banca centrale e il sistema bancario, gli investimenti per le infrastrutture, la ricerca e l’istruzione), quelli della politica estera (il ripudio della guerra, la cooperazione internazionale, l’organizzazione della difesa, l’immigrazione) e delle politiche sociali (il reddito di cittadinanza, la previdenza, la sanità, la contrattazione delle condizioni di lavoro, l’orario di lavoro, ecc.).
L’utopia reazionaria del ritorno alle sovranità nazionali
Tutti e tre questi approcci guardano all’Europa come a un terreno irrinunciabile della lotta politica che deve portare, nelle intenzioni di chi li promuove o li sostiene, a una maggiore integrazione sia culturale che delle economie e delle istituzioni sociali dei paesi membri e a una maggiore eguaglianza sia tra paesi diversi che all’interno di ciascuno di essi. Per questo si tratta di approcci radicalmente opposti a quelli che individuano la strada per uscire dalla crisi economica e delle istituzioni europee in un ritorno alle sovranità nazionali in campo monetario (“uscita dall’euro” e svalutazioni competitive), tariffario (protezionismo), fiscale (spesa pubblica finanziata dalla banca centrale nazionale) e produttivo (nazionalizzazioni senza prospettare nuove forme di controllo sull’operato delle imprese). Il paradosso di queste proposte è che, pur presentandosi come alternativa al predominio incontrastato delle dottrine liberiste, rimangono interamente interne alla loro logica: pensare di recuperare competitività e spazio per le esportazioni di ogni singolo paese sui mercati internazionali attraverso la svalutazione della propria valuta, in una gara di competitività al ribasso tra paesi impegnati tutti sulla stessa strada, significa ritenere che ciò che è stato possibile in questi anni alla Germania in Europa o alla Cina nel mondo sia replicabile da tutti; senza tener conto del fatto che ai surplus commerciali dei paesi “vincenti” devono corrispondere necessariamente dei deficit di quelli perdenti. Che è il ruolo, quest’ultimo, che è stato fatto giocare all’Italia e ai PIIGS in questi anni in Europa. E questo, proprio in quel contesto di business as usual (cioè insistendo su produzioni che stanno perdendo mercato) che impone che alla competitività dei paesi membri non vengano imposti limiti e regole: limiti e regole che soltanto la rinegoziazione e la riformulazione generale dei trattati europei potrebbero e dovranno introdurre. Inoltre, un approccio fondato sul recupero di una evanescente sovranità nazionale non tiene conto né dei problemi connessi al sempre più pesante impatto ambientale delle produzioni in essere – e del sistema che le genera – né del fatto che nel corso degli ultimi decenni il mondo è profondamente cambiato, e quello che aveva favorito lo sviluppo economico tra sessanta e trent’anni fa – in particolare la divisione internazionale del lavoro del tempo e la connessa distribuzione settoriale dei “punti di forza” – non funziona più altrettanto bene né adesso né funzionerà più in futuro; proprio perché altre sono le cose da fare e da produrre.
Chi porterà avanti quel progetto?
Il problema sembra quindi quello di “dare gambe” a un progetto che integri tra di loro – nella misura del possibile – i tre approcci europeisti di cui sopra. O, piuttosto, quello di valorizzarne le elaborazioni e riformularne congiuntamente i termini alla luce delle indicazioni che si possono ricavare dalle dinamiche e dalle impasse in cui sono incorsi o stanno incorrendo in tutto il continente europeo i movimenti sociali in atto o in gestazione. Negli ultimi tre anni, a partire dalle primavere arabe, dal movimento 15 maggio in Spagna e dalle mobilitazioni contro le politiche imposte dalla Troika in Grecia, passando per Occupy Wall Sreet e Occupy the World negli Stati Uniti, per approdare, per ora, all’occupazione di Piazza Tashkin in Turchia e alla rivolta contro le spese folli per le Olimpiadi in Brasile – e senza mettere nel conto le decine di migliaia di rivolte in Cina, che hanno costretto il governo di quel paese a invertire rotta, e altro ancora – il mondo ha assistito a una grande mobilitazione contro le diseguaglianze economiche e sociali, contro le politiche dei Governi che le tollerano o le promuovono, contro il predominio dell’alta finanza che le impone ovunque. Quelle mobilitazioni non si sono certo dissolte nel nulla, ma hanno dato vita a organismi e iniziative di base che si sviluppano prevalentemente nei coni d’ombra che i media producono numerosi intorno alle aree messe a fuoco in forme sempre più conformisticamente omogenee. Anche in Italia c’è stato e c’è tutt’ora un grande fermento di iniziative e di lotte che non accenna a ridursi, anche perché le condizioni di vita della maggioranza della popolazione sono in via di netto peggioramento e per molti hanno già raggiunto un punto di non ritorno. Nel nostro paese però è prevalsa una frammentazione delle mobilitazioni che non è riuscita finora a trovare che pochi momenti significativi di confluenza. Ma non va dimenticato che alla mobilitazione mondiale contro la globalizzazione liberista del 15 ottobre 2011 l’Italia aveva dato il contributo di gran lunga maggiore, sia in termini numerici che di varietà delle presenze sociali in piazza; e questo nonostante che la manifestazione di Roma fosse poi finita male per l’iniziativa congiunta delle forze dell’ordine e di una componente gratuitamente violenta dei manifestanti. Ma questa frammentazione è tuttavia accompagnata da una intensità di elaborazioni, di sperimentazioni, di buone pratiche, di vita associativa e di lotte esemplari che ha pochi riscontri in altri paesi europei.
Il problema del nostro rapporto con l’Europa e del modo in cui costruire la strada verso l’Europa che vogliamo, verso un’Europa che raccolga le rivendicazioni e le istanze espresse dalle lotte e dai movimenti sociali di questi anni viene così a coincidere con il problema dell’organizzazione. Qual è il “soggetto” in grado di promuovere questa trasformazione di portata internazionale? E come allargare, interconnettere e omogeneizzare – lasciando perdere il termine “unificare”, che rischia di travalicare gli intenti e le peculiarità irriducibili delle istanze che vorrebbe sostenere – quegli spezzoni di resistenza e di opposizione al dominio della attuale governance europea? Quelle manifestazione della ricerca di un’alternativa che potrebbero costituire la linfa e il motore di questa transizione?
Si tratta innanzitutto di creare un “ponte”, anzi, molti “ponti” (Alex Langer, che era un vero europeista, amava molto questa metafora, che d’altronde ben si combina con quella della strada da costruire utilizzata in questa sede) tra realtà differenti per dimensioni, per rilevanza, per composizione sociale, per cultura, per tradizione, per radicamento territoriale, per il diverso grado di intensità con cui ciascuna di esse vive la crisi. Oltreché, ovviamente, per nazionalità e per lingua madre: un fattore, questo, che non solo rende complicata la comunicazione tra i popoli dell’Europa, ma avviluppa e rinserra spesso ciascuno di noi in problematiche particolari che coloro che appartengono a un diverso universo linguistico hanno difficoltà a comprendere e far proprie. In tutti i casi è comunque essenziale rispettare le diverse specificità, cercando di ricavarne un arricchimento per tutti.
Il sociale e il politico
Tutto qui? potrebbe chiedere un sostenitore della “forma partito” o, più in generale, di una soggettività politica sostanzialista. Il tema rimanda in realtà a qualcosa di più generale: al superamento o alla dissoluzione della distinzione tra il sociale e il politico, tra i movimenti e la loro direzione, tra i cittadini e la loro rappresentanza, nelle istituzioni e non. Il Novecento aveva “risolto” quella distinzione in termini di dialettica tra avanguardia e masse, o tra azione sindacale – in senso lato – e partito; o partiti. Ma il Novecento, nel corso della sua evoluzione, ha anche finito per assorbire nei meccanismi della gestione statuale del potere tutte le istituzioni storiche che i movimenti sociali si erano dati nel corso delle lotte e dei conflitti che hanno concorso a instaurare le moderne forme di democrazia a suffragio universale e di Stato sociale nelle nazioni dell’Occidente. E ora, ma è da tempo che ciò succede, i movimenti si riaffacciano sulla scena del conflitto in forme in cui le distinzioni tra iniziativa dal basso e rappresentanza e tra sociale e politico sono sostanzialmente azzerate. Ciò affonda definitivamente anche il tentativo di sostituire al modello in via di tramonto della forma partito, o del “soggetto politico”, una concezione “pesante” e sostanzialista della rappresentanza: cioè una concezione che non si limiti a designare con questo termine una pattuglia piccola o grande di parlamentari o di consiglieri nelle istituzioni della democrazia rappresentativa, ma la ponga al centro del processo organizzativo della transizione verso una società diversa, cercando così di sottrarsi all’ambivalenza intrinseca del “soggetto”.
Certamente, data la varietà e la frammentazione delle modalità in cui i movimenti si manifestano, ci sono e ci saranno sempre, da un lato, organismi che privilegiano la dimensione politica generale del loro agire e che si assumono per questo, accettati e condivisi o no che siano, ruoli che hanno a che fare con una regìa dei movimenti in campo (Alba è uno di questi); e dall’altro, organismi gelosi invece della loro connotazione sociale e restii a espandere in termini politici la loro iniziativa; ma nonostante ciò, o forse proprio perché non accettano di essere “rappresentati” da altri, pienamente se non compiutamente “politici” anch’essi.
Ci troviamo in realtà di fronte a un passaggio che mette in discussione non solo la storia recente e meno recente delle sinistre nate dall’evoluzione del movimento operaio, ma persino un tratto costitutivo della modernità: la distinzione tra la sfera del politico, della rappresentanza, degli istituti che si presentano come il prodotto del contratto sociale diverso e separato dai “soggetti” che lo hanno realizzato – e l’ambito degli interessi fondamentali che quella sfera dovrebbe rappresentare, e che in qualche modo rappresenta. Ma solo finché la cittadinanza si presenta di fronte ad essa nella forma di individui atomizzati e isolati. Quella forma in cui si radica l’idea che non si possano esprimere legittimamente i propri interessi se non attraverso la mediazione delle istituzioni: cosa palesemente falsa, soprattutto al giorno d’oggi. Perché quegli interessi hanno cessato da tempo di sentirsi “rappresentati” – e l’estraneità e il rigetto della politica in Europa e in tutto il mondo occidentale ne è una conseguenza non congiunturale, ma strutturale – soprattutto quando quella cittadinanza si ricompone in forme condivise, come movimento di lotta, o come sperimentazione di nuove pratiche di lavoro e di vita.
Oggi infatti la condivisione e i legami sociali costruiti dentro un agire collettivo sono l’ambito privilegiato, se non esclusivo, della maturazione e dello sviluppo dell’autonomia personale del singolo; mentre l’individuo isolato, l’homo oeconomicus (se mai esistesse), il Robinson Crosué anonimamente immerso nella società di massa vivono in balia di tutti i condizionamenti che pubblicità, media, “mercati” e sfera separata della politica esercitano su di loro. L’individuo che dovrebbe essere il soggetto e l’attore del patto sociale che legittima le istituzioni è stato completamente assorbito da queste ultime, e ora deve affidare la salvaguardia della propria persona e della propria individualità alla rivolta, alla ribellione, alla lotta, alla decisione di imboccare un cammino diverso da quello che gli è stato prospettato; cioè alla ridefinizione della sua identità in un processo collettivo.
Soggetto e rappresentanza
Così, grazie o a causa di quella ambivalenza, sia il “soggetto politico” che la sua “rappresentanza” vivono come poli di una continua oscillazione che finisce, da un lato, per ricondurre tutte le istituzioni all’iniziativa creatrice e costituente del soggetto (Il “comune” di Negri e Hardt non è che l’ultimo approdo di una concezione bulimica, ipertrofica e totalizzante della soggettività – vecchia di cinquant’anni – secondo cui le istituzioni del capitale non sono che il prodotto dell’iniziativa, ieri della classe operaia, oggi della “moltitudine”); dall’altro, a ridurre l’iniziativa politica e sociale alla sua rappresentanza, o alla sua capacità di “autorappresentarsi. Ma in entrambi i casi si finisce così per azzerare il rapporto dialettico, conflittuale, ma anche “contrattuale”, tra movimento e istituzioni. Contrattuale nel senso della continua rinegoziazione dei termini di un rapporto tra due contraenti che rimangono distinti e per lo più contrapposti; ma entrambi al tempo stesso sociali (in quanto espressione di interessi consolidati di parte) e politici (in quanto mettono in discussione la gestione del potere).
Per questo occorre accettare il dato, sostanzialmente estraneo alla cultura della sinistra legata alla storia del movimento operaio, che la costruzione di un’organizzazione non sia un processo unico, ma possa avvenire solo per strati sovrapposti o per comparti contigui relativamente indipendenti tra loro e non sempre interconnessi o facilmente collegabili. Per esempio, un’eventuale rappresentanza parlamentare – che non deve per forza configurarsi come “partito”, pur potendo costituire un punto di riferimento importante per la maturazione di uno o molti movimenti – dovrà sì connettersi il più possibile con le forme organizzate del suo elettorato, ma non potrà mai dipenderne. Oppure, le buone pratiche tese a sperimentare forme di vita, di lavoro e di consumo alternative hanno un lungo percorso da compiere per potersi innestare, e portare un contributo sostanziale, a un movimento di disoccupati o di lavoratori precari o a dei lavoratori in lotta per la difesa del proprio posto di lavoro (e viceversa); o a comunità che si battono contro la devastazione dell’ambiente in cui vivono. E ancora, studenti e operai, scuola e lavoro possono trovare momenti di unità in mobilitazioni comuni, ma poi la strada di un collegamento più stretto e più produttivo – portare la scuola in fabbrica e in azienda e i problemi del lavoro nelle scuole e all’università, non solo in termini di reciproca comprensione, ma anche in quelli di una comune elaborazione di progetti di riconversione produttiva – è un’altra cosa; eppure è una prospettiva irrinunciabile. Già oggi le pratiche di un diverso approccio al consumo che si sono andate affermando con i Gruppi di acquisto solidale hanno reso disponibili anche un modo diverso di intendere l’alimentazione e offerto uno sbocco commerciale ad alcune enclave di agricoltura sostenibile; ma coinvolgere in un processo del genere un’intera cittadinanza e i governi locali del territorio è un processo organizzativo di tutt’altra dimensione. Lo stesso vale per il ricorso alle fonti di energia rinnovabile, per l’efficienza energetica degli edifici e delle imprese, per la mobilità sostenibile, per la gestione dei rifiuti, ecc.
Decostruzioni
Infine, oltre a porsi in una prospettiva costituente con queste pratiche, occorre anche adottare un approccio “decostruttivo”, un impegno alla dissoluzione progressiva dei legami e dei vincoli su cui è costruita l’attuale organizzazione sociale, a partire dalle strutture dell’impresa, della pubblica amministrazione e delle forze armate così come sono organizzate oggi. Solo ostacolandone il funzionamento ordinario (che ordinario non è mai, perché frode e processi “estrattivi” si annidano sempre in ogni angolo di istituzioni sottratte all’imperativo della trasparenza e del controllo pubblico) possono nascere embrioni di una gestione alternativa delle attività produttive, del governo locale, della gestione dell’”ordine”. Quest’ultimo tema – la gestione dell’ordine – è tanto più importante se non si vuole eludere un problema che il discorso politico sull’organizzazione tende da tempo a trattare sempre meno, o con una visione sempre più corta: che è il tema della forza e del crescente potere, non solo militare, ma anche politico ed economico, che le forze armate tendono ad avere in tutte le società di un mondo ormai globalizzato (e che proprio per questo non dovrebbe più conoscere guerre), fino a diventare spesso gli arbitri delle sorti di un intero paese. Se sono caduti da tempo i miti della presa del Palazzo d’Inverno, o l’attesa di una liberazione delle città ad opera di una guerriglia che parta dalle campagne del mondo, il bagno di sangue in cui sono precipitati alcuni dei paesi – come Libia e Siria, ma anche Yemen e Barhein – che avrebbero forse voluto e potuto unirsi al movimento delle primavere arabe e contribuire alla sua generalizzazione, rendono evidente un dato di fondo, che d’altronde ci viene confermato dall’esito, per ora, della vicenda egiziana. Il monopolio statale della forza, oggi visivamente incarnato in Italia dalle “forze dell’ordine” (Polizia e Carabinieri, con un back-office in larga parte della magistratura), ma sempre più compenetrato – in Campania come in Valle di Susa e in molti altri posti ancora – da una presenza invasiva delle Forze armate, non può essere messo in forse che a partire dal loro interno: attraverso l’allentamento dei vincoli che legano l’esecuzione degli ordini a una gestione antidemocratica e antipopolare dei diversi corpi. L’obbedienza, diceva già Don Milani, non è una virtù…Il modello su cui occorre lavorare è verosimilmente quello, pacifico, della rivoluzione dei garofani in Portogallo, che l’isolamento internazionale, l’insufficiente consolidamento delle organizzazioni delle forze rivoluzionarie e la mancanza di un’ipotesi praticabile e di lungo periodo di gestione del potere non erano stati in grado, allora, di tenere in vita a lungo.
Su tutti questi temi l’organizzazione si forma sia attraverso campagne di opinione e battaglie culturali per affermare un punto di vista concreto, praticabile, diverso e opposto a quello del pensiero unico dominante – per esempio, su temi come la pace, il reddito di base incondizionato, il salario minimo garantito, la riduzione dell’orario di lavoro, la democrazia nei posti di lavoro, il valore della cultura indipendentemente dalla sua redditività, la difesa a oltranza del diritto alla dignità, all’esercizio della cittadinanza, alla pensione, alla protezione sanitaria, all’istruzione, ecc. – sia attraverso le lotte per la difesa del posto di lavoro, per condizioni di lavoro sicure a dignitose, per la difesa del potere di acquisto di stipendi e salari o contro il precariato; sia, ancora, attraverso la mobilitazione sociale di una comunità contro lo scempio e la manomissione del suo territorio, o per fare spazio e dare forza a un diverso modo di vivere e di lavorare; quella lotta di cui la Valle di Susa rappresenta l’esempio più chiaro e luminoso.
La conversione ecologica
Ma qual è la leva che può portare all’integrazione tra questi differenti livelli? E promuovere una loro progressiva interconnessione a livello europeo? A mio avviso il tema è quello della conversione ecologica di produzioni e consumi; tema che ingloba anche quello della giustizia sociale e ambientale. La conversione ecologica è anche e soprattutto il passaggio graduale – ovunque le condizioni tecniche e la disponibilità di risorse lo rendano possibile – dal grande al piccolo, dal concentrato al diffuso, dal gerarchico al partecipato, in un generale orientamento alla riterritorializzazione dei processi economici. Per esempio, in campo energetico, dai grandi impianti di estrazione, trasporto, combustione, raffinazione dei combustibili fossili, e di vettoriamento dell’energia elettrica o dal carburante che se ne ricava, allo sfruttamento delle fonti rinnovabile in modalità diffuse, distribuite su tutto il territorio, con impianti piccoli e diversificati per fonti e per carichi, collocati e dimensionati attraverso un coinvolgimento e una partecipazione diretta degli utenti. In agricoltura è il passaggio dalle coltivazioni intensive che consumano dieci volte più calorie di origine fossile di quante ne producano in termini biologici, a una agricoltura di prossimità, ecologica e multifunzionale. O, ancora, il passaggio da una mobilità incentrata sull’auto privata, che è una modalità di trasporto infestante che produce congestione, e che proprio per questo è diventato di fatto un sistema unico estremamente rigido, a una mobilità flessibile, fondata sulla condivisione dei veicoli; ecc. Sono tutte operazioni a elevata intensità di lavoro che creano molta nuova occupazione sia altamente qualificata che non. Inoltre tendono a, o rendono comunque conveniente, una forte rilocalizzazione di molti processi produttivi, anche a causa della crescita irreversibile dei costi complessivi dei trasporti. Le rilocalizzazioni sono peraltro fenomeni già in parte in corso, invertendo i processi con cui le delocalizzazioni degli ultimi decenni hanno finito per “desertificare” molte delle zone industrialmente più evolute del mondo. Certo non tutto può essere riterritorializzato: innanzitutto un processo del genere può riguardare solo la produzione di beni e servizi alla persona, e non quella di saperi, creazioni artistiche e informazioni, che devono rimanere beni comuni che circolano, a disposizione di tutta l’umanità. E, comunque, il commercio internazionale, e con esso la capacità di esportare, rimangono condizioni ineludibili per mantenere in vita un sistema produttivo evoluto come quello su cui dovrà contare lo stesso processo di riconversione.
Ma la conversione ecologica deve comunque riuscire a ridimensionare quella competizione globale sempre più serrata, dove per vincere la concorrenza si spingono verso il basso salari, condizioni di lavoro, tutele dell’ambiente e della salute, condizioni di vita, sostegno ai più deboli, trasformando tutti e ciascuno in soldati di un esercito al comando dei rispettivi capitani d’industria o dei gestori della finanza pubblica del proprio paese. E a quella competizione selvaggia deve saper opporre una politica di accordi, il più possibile diretti e non intermediati, tra produttori e utilizzatori o consumatori finali, capace di garantire l’efficienza dei processi produttivi non attraverso una concorrenza selvaggia, ma attraverso procedure di benchmaking (cioè di confronto con le performances tecniche più evolute), senza mai rinunciare alla salvaguardia dei diritti inalienabili dei lavoratori, della popolazione e dei territori investiti da questi processi. Questa non è l’abolizione del mercato, perché lo scambio tra produzione e consumo avverrà sempre per il tramite di un prezzo e di un passaggio di denaro; ma è un contenimento drastico dei vincoli imposti dalla concorrenza in ambiti dove accettarli significa produrre deserti occupazionali, distruzione di intere comunità, desertificazione del territorio. E’ ovvio che, in un contesto del genere, i rapporti di prossimità (km0) tra produzione e consumo presentino un netto vantaggio sulle “catene lunghe” di un mercato globalizzato, regolato solo dalla competizione sui costi.
Il ruolo dei governi locali
Ma decisivo nel promuovere questo processo – che ovviamente sarà sempre un work in progress, continuamente rimesso in discussione da innovazioni tecniche, cambiamenti del contesto locale e internazionale, comparsa di nuovi attori e nuovi protagonisti – sarà il ruolo delle amministrazioni locali: municipalità, Comuni e associazioni di piccoli Comuni, governi del “territorio”. La riterritorializzazione dei processi può infatti essere promossa solo restituendo ai governi locali i poteri necessari a portare avanti la realizzazione di questo obiettivo. D’altra parte una restituzione del genere può avvenire soltanto nell’ambito di una democrazia partecipata, di prossimità, che vada ad affiancarsi a quella rappresentativa, adeguatamente rivitalizzata dall’apertura ai processi partecipativi. Una delle condizioni essenziali della riconversione è proprio l’impegno di una cittadinanza attiva – che ovviamente non coinvolge in misura uguale tutti, né tutti sugli stessi temi – capace di mettere a disposizione del processo i propri saperi, sia tecnici e professionali che sociali (cioè quelli che si possono acquisire soprattutto attraverso un reciproco interrogarsi tra coloro che vivono e lavorano in uno stesso territorio). In un contesto del genere un ruolo centrale spetterà alla rinascita del mutualismo, che oggi, in molte situazioni riprende e rinnova moduli organizzativi che hanno accompagnato la nascita del movimento operaio a partire da un secolo e mezzo fa.
Rinegoziazione dei vincoli finanziari, conversione ecologica, riterritorializzazione delle produzioni e federalismo municipale si possono dunque saldare in un processo comune che ha il suo perno nella trasformazioni delle produzioni e dei servizi essenziali in “beni comuni”. Che sono tali – cioè comuni – se e solo quando la loro produzione è sottoposta a una gestione democratica e partecipata; o, per lo meno, è oggetto di una rivendicazione condivisa in tal senso. Ma questo è un processo generale che, per procedere lungo quella strada che è ancora in gran parte da costruire, ha bisogno del concorso e del contributo specifico di ogni singolo territorio, delle comunità che lo abitano, dei saperi locali e generali della popolazione, e di un impegno personale di tutta la cittadinanza attiva. Il bisogno di organizzazione, in un contesto “liquido” come quello determinato dall’evoluzione sociale ed economica prodotta dalla globalizzazione, si traduce allora in una pluralità di iniziative e di organismi in grado di farsi promotori e registi di questi processi, in un rapporto di interconnesione reciproca sempre più stretto.
E’ possibile ridimensionare il potere dell’alta finanza?
Naturalmente tutti questi processi potranno svilupparsi solo in un quadro che veda drasticamente ridimensionato il potere che la finanza esercita sulle vite di tutta la popolazione mondiale attraverso l’economia del debito (debito delle famiglie, delle imprese, dei lavoratori autonomi, delle banche, degli Stati) e un sistema che allo sfruttamento del lavoro affianca ormai da tempo, e con sempre maggiore intensità, meccanismi di tipo estrattivo: quelli che si attuano attraverso la riproduzione all’infinito del debito – e la crescita infinita degli interessi da pagare – e la dilatazione senza fine della massa monetaria che circola e avvolge nella sua rete l’intero pianeta.
Il ridimensionamento di quel potere difficilmente sarà realizzabile in modo graduale e consensuale; è assai più probabile che si materializzi attraverso una serie traumatica di shock. Sia che a provocarli siano nuovi e ripetuti fallimenti delle istituzioni finanziarie che continuano a operare lungo la strada che ha portato alla crisi del 2008 tuttora in corso; sia che facciano seguito a dichiarazioni generalizzate di insolvenza – default – da parte dei governi più indebitati (un problema che accomuna i paesi dell’Europa del sud ai paesi della sponda settentrionale del Mediterraneo; e ne vedremo presto le conseguenze). Anche se queste insolvenze venissero realizzate in forma graduale e selettiva (ristrutturazione del debito, moratoria, giubileo) per ridurne l’impatto sulla popolazione, si tratta comunque di misure che sicuramente le istituzioni finanziarie globali non sarebbero disposte a subire senza mettere in atto tutto il potere di ricatto e di ritorsione a loro disposizione. Per questo anticipare quanto più possibile i processi di riterritorializzazione e promuovere sistemi monetari locali indipendenti e paralleli alla circolazione della moneta europea è anche un modo per difendersi e prevenire gli effetti più devastanti di quelle ritorsioni.
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