L’intervento al forum “La via d’uscita”, Firenze, 9 dicembre 2011
Riporto di seguito la scaletta che mi ero preparato per fare il mio intervento all’incontro di Firenze sulla via di uscita, precisando che non tutte le cose che sono scritte qui sono riuscito a dirle, per mancanza di tempo e per mia insufficienza oratoria
In una riunione che vuole avere una dimensione operativa (cercare una via d’uscita dalla crisi) la scelta più importante è che i problemi vengano affrontati in una dimensione globale, planetaria, e non solo nazionale. La crisi greca è stata affrontata come crisi nazionale; poi lo è stata anche quella italiana (e quella di tutti i paesi PIGS); ma ben presto si è visto che non erano tali: sono crisi che non si possono risolvere, e nemmeno affrontare, a livello nazionale, anche se questo è il compito che Monti si è dato, su imput di Draghi; e che ha dato a tutti noi.
La Grecia, sottoposta al trattamento “nazionale” imposto dalla governance europea non ha più alcuna possibilità di risollevarsi. L’Italia ha imboccato la stessa strada, e se continua a seguirla è destinata alla stessa fine. Per questo è sbagliato l’invito a “baciare il rospo”, chiunque sia; non solo perché è proprio un rospo; e le misure che ha adottato sono non solo inique ma soprattutto inutili. Ma perché la crisi del debito va affrontata per lo meno a livello europeo; e a questo livello non c’è nessun progetto all’altezza dei problemi. Manca in assoluto la consapevolezza dell’ordine di priorità dei problemi, che è anche quella che ci può permettere di affrontarli.
Al primo posto c’è lo stato di salute del pianeta, di cui si sta discutendo senza decidere niente a Durban. La vita e le condizioni delle future generazioni dipendono da questo stato di salute molto più che dal debito. Al secondo posto c’è sì il problema del debito, ma non è solo quello del debito pubblico italiano; bensì la montagna di debiti e crediti inesigibili (sia pubblici che privati) – 10-20 volte il PIL mondiale – che ci sovrasta e che rischia di trascinare nel baratro tutte le economie europeee (Germania compresa, la situazione delle cui banche è assai più precaria di quella della finanza pubblica italiana). Il problema del debito nasce dal potere del capitale finanziario e dal modo in cui gli sono state consegnate le chiavi delle politiche nazionali e delle sorti globali del pianeta. Il capitale finanziario succhia quel che c’è, e soprattutto ipoteca il futuro, quello che non c’è ancora e potrebbe non esserci mai più. Noi dobbiamo lavorare su quello che c’è e non su quello che potrebbe non esserci mai più.
Per questo la conversione ecologica di produzione e consumi, a livello tanto locale che globale, viene prima ed è la condizione irrinunciabile per affrontare il problema dei debiti. Per quanto riguarda il debito pubblico italiano, non si può affrontare il problema né con politiche deflazionistiche di pareggio del bilancio, che strangolano l’economia; né con la promessa di una “crescita” che riduca progressivamente il rapporto debito/PIL. Questa crescita non è in vista, ne è probabile nei prossimi anni, né in Italia, né in Europa; e verosimilmente neanche nel mondo. E, visto lo stato del pianeta, nelle forme che ha assunto finora, non è nemmeno auspicabile. E’ più probabile che ci attenda un lungo periodo di deflazione, ma soprattutto di turbolenza finanziaria, economica e sociale – speriamo non di guerre – senza alcuna crescita. Dobbiamo attrezzarci per imparare a conviverci.
Per questo vorrei sentire qualche economista, o esperto di economia (ma ce ne sono davvero pochi), che non affidi il successo delle sue ricette alla ripresa della crescita, perché questo le rende di per sé fallimentari. La mia domanda è: si può delineare una prospettiva di valorizzazione delle risorse ambientali, tecniche, umane, dei saperi e dell’inventiva di miliardi di esseri umani che non sia legata alla prospettiva della crescita dei PIL?
Chi mi conosce sa che non sono tenero con il concetto di decrescita. Penso che ci si debba sottrarre alla morsa dell’alternativa crescita-decrescita come a molte altre morse (per me, anche a quella dell’alternativa destra-sinistra) e individuare soprattutto le cose che riteniamo giusto e possibile fare o promuovere. Dobbiamo imparare a sottrarci anche alla morsa dell’alternativa locale-globale. Può sembrare un’ovvietà, perché tanti pensano di averla aggirata parlando di “glocale”. Ma essa spesso si ripresenta sotto la forma di alternativa tra iniziativa locale e programma generale, dietro cui, ancora più spesso, si nasconde l’alternativa tra sociale e “politico”. Alternativa che si presenta con la domanda: che valore può avere l’iniziativa in campo sociale senza un programma, una prospettiva e un soggetto politico generale?
Il fatto è che quel soggetto non c’è più da tempo; e non c’è neppure il programma e, a essere sinceri, c’è poco anche la prospettiva. Chi di noi non si sente anche solo un po’ imbrigliato dentro il dogma che “non c’è alternativa”? E chi di noi non vede che è questa percezione a tenerci tutti incatenati allo stato di cose presente e alla sua evoluzione più o meno automatica? E non è forse questo ciò che ha spinto tanti di noi a suggerire di “baciare il rospo”? Io credo che la prospettiva, il programma e il soggetto politico, qualunque cosa si voglia intendere con questi termini, oggi non possano che passare attraverso alcuni varchi obbligati, anche se molto ma molto stretti:
Il primo è il riconoscimento che l’attuale dimensione del debito globale, nelle sue diverse forme, non può essere affrontata se non nella forma di una sua radicale ristrutturazione, cioè con un abbuono negoziato, più o meno ampio, o selettivo, come rivendicano tutti i movimenti che hanno occupato le piazze del mondo in questi mesi. Sulle forme e i tempi si può e si deve discutere – e dovrebbe essere il lavoro degli economisti – ma sulla sostanza no. La premessa di ciò è un audit pubblico sull’origine, i detentori e le conseguenze di una ristrutturazione del debito pubblico italiano. Ma anche una maggiore comprensione delle dimensioni di tutte le altre forme di debito.
Il secondo varco sta nel fatto che bisogna mettersi davvero nelle condizioni di non parlare più di crescita – e nemmeno di decrescita – ma delle cose che si possono o non possono fare. Può darsi che a una valutazione complessiva la conversione ecologica comporti una ulteriore crescita in termini di PIL, grazie al disaccoppiamento tra consumo di risorse e valori prodotti – anche se la cosa sembra altamente improbabile – come può darsi che comporti una decrescita. In nessuno dei due casi dovremmo preoccuparcene.
Il terzo varco sta nel fatto che la prospettiva, il programma e il soggetto generali non si possono costruire che attraverso la promozione, la generalizzazione e il coordinamento deIl’iniziativa locale. Ovviamente alla luce di una visione globale dei problemi, che si può riassumere nella replicabilità, che è ciò che ci distingue dal bieco localismo: è buono ciò che, adattato ai diversi contesti, può essere rifatto ovunque senza danneggiare nessuno, se non gli interessi che combattiamo. E’ da evitare tutto ciò che ci mette in concorrenza con altri; che o si fa da una parte o si fa dall’altra. Sono buone le energie rinnovabili, l’efficienza energetica, la sovranità alimentare, il risparmio e il recupero di suolo, di edifici, di risorse. Sono buone la mobilità sostenibile, l’educazione permanente e l’istruzione per tutti, la prevenzione sanitaria, la valorizzazione dei saperi tecnici, sociali e di quelli tradizionali. E’ da evitare il contrario di tutte queste cose.
Prendiamo l’esempio dei GAS (lo faccio sempre). Unisce saperi alimentari e sanitari, tecnici e tradizionali, processi di trasformazione delle tecniche agricole, riterritorializzazione (per quanto possibile) dei rapporti tra produzione e consumo, promozione di una nuova socialità. E’ un paradigma (ma non più di quello) della conversione ecologica. Cioè di una trasformazione che unisce una modificazione radicale delle pratiche produttive e degli stili di vita, il ricorso a saperi diffusi, l’iniziativa imprenditoriale, la sovranità territoriale. Ma, soprattutto, che comporta un conflitto, latente o dispiegato, con teorie, pratiche e interessi costituiti.
Questo paradigma si può estendere a tutti gli altri ambiti citati: energia, consumo di suolo e risorse, mobilità, istruzione; a progetti di riconversione delle fabbriche in crisi e di valorizzazione di risorse inutilizzate o sprecate. Non sto teorizzando il “fai da te”. Ognuna di queste pratiche comporta conflitti grandi o piccoli; e tanto più radicali quanto più si estendono e coinvolgono una pluralitá di soggetti e pongono l’esigenza di una direzione comune. Ma a partire da processi di effettiva partecipazione alla loro progettazione, alla loro rivendicazione o alla loro pratica.
Ancora una cosa: la partecipazione può essere, ed è, un’idea di sinistra. Ma chi partecipa di una rivendicazione, di una lotta, di una pratica, non è né può essere a priori né di destra né di sinistra. La partecipazione, la democrazia partecipata, sono arene; dove c’è la possibilità che “vinca il migliore” (l’idea migliore); a differenza della democrazia rappresentativa, dove da tempo vince sempre il peggiore.