L’uscita di Fiat da Confindustria (il foglio, 5 ottobre 2011)
La Fiat che esce da Confindustria è come il sorcio che abbandona la nave che affonda. Il sorcio è Marchionne, che pensa di aver trovato un vascello più sicuro in Chrysler, le cui vendite viaggiano a gonfie vele negli Stati uniti, anche se in un mare agitato, dove la più piccola delle big three (che però produce auto smisuratamente grandi e voraci) continua a rischiare la fine del vaso di coccio. In questo trasbordo il sorcio si porta dietro il know how motoristico della Fiat (uno dei più robusti del mondo, costato al contribuente italiano, nel corso degli anni – e ancora ora, con la CI – miliardi di euro). E, mentre chiude tre grandi stabilimenti (CNH di Imola, Termini Imerese e Irisbus) lascia qui, insieme alla patacca del piano “Fabbrica Italia”, la girandola dei prodotti che dovrebbero riempire gli stabilimenti ormai vuoti: un monovolume; anzi, no, due suv da montare con pezzi provenienti da Detroit e da rivendere – su e giù per l’Atlantico – negli Usa; anzi no, una city-car, ovvero la nuova “topolino”; anzi no, un suv targato Jeep, da vendere in Europa (dove Fiat non ha né esperienza né rete per piazzare questo mostro metallico). D’altronde il marchio non va bene né qui né in Brasile (già fiore all’occhiello di Marchionne, quando spiegava che i suoi guai sono solo italiani).
La nave che affonda, invece, è Confindustria, che da qualche settimana sta cercando di buttare a mare la zavorra; ma che ne ha imbarcata talmente tanta nel corso degli ultimi 17 anni che l’impresa appare ormai disperata. La zavorra di Confindustria, dicono i suoi critici, sono i costi e la burocrazia di un apparato elefantiaco e inefficiente. No. E’ un pensiero strategico striminzito – o inesistente – coltivato parassitariamente al seguito di Berlusconi e delle sue promesse (meno tasse, diritto all’evasione fiscale, libertà per le imprese – poverette! – piani casa, grandi opere, Alitalia italiana! ecc) a rendere elefantiaco e inefficiente l’apparato: sia in Confindustria che nei ministeri (qui il confronto è con il non-pensiero di Brunetta), che in tantissimi altri enti. Intanto, dietro al sorcio Marchionne, si mette in moto un branco di altri imprenditori insofferenti di un governo di impresa sottoposto alle regole della contrattazione e tenuto al rispetto della dignità della persona: quello dell’art. 41 della Costituzione (da abrogare). Così, al risveglio della (bella) addormentata, Confindustria si ritroverà “in pancia” – come si usa dire ora – solo una frotta di imprese troppo piccole o deboli per farsi da sole un contratto a proprio uso e consumo, e una serie di aziende semipubbliche – da FS a Finmeccanica, da Eni a Enel, passando per Fincantieri – di cui è la prima a pretendere urgentemente la svendita (dissolvendosi; ma per rilanciare “la crescita”, ovviamente): magari attraverso uno “spezzatino” gestito da banche o gruppi stranieri, dato che in Italia nessuno ha i soldi per farlo.
La zavorra di cui sopra, poi, è la “berlusconomics”: una dottrina che porta il nome del premier, ma che, per via dei troppi impegni – di diverso carattere – del titolare, è stata elaborata e gestita nel corso degli anni (con alterne vicende segnate dall’avvicinarsi o allontanarsi di Fini dalla greppia governativa) da Tremonti: degno emulo del mago Otelma nel tirare fuori dal cappello ogni giorno un’idea nuova: anzi, un nome nuovo per un’idea che è sempre la stessa, e che si radica irrevocabilmente nelle sue competenze professionali di commercialista: consulente in evasione ed elusione fiscali; con in più il vantaggio, essendo ministro, di poter promuovere queste pratiche “per legge”; a beneficio di tutti coloro che invece di “fare impresa” preferiscono mettere al sicuro il malloppo. Ovvio che con questa dottrina l’Italia si trovi oggi ancora più a malpartito di tutti i suoi partner europei.
Ma che cosa c’è dietro a questo “balletto” di imprenditori che è andato a sovrapporsi al famigerato “teatrino della politica”? C’è il trasferimento nel cuore dell’impresa della dismisura tra lo strapotere della finanza internazionale (a cui è stata fraudolentemente consegnata quella sovranità che tutte le costituzioni democratiche attribuiscono ai popoli) e i bisogni, anche più elementari, di milioni di persone sottoposte ai ricatti di un’economia fondata sul debito: debito pubblico, debito delle banche too big to fail, debito dei padroni di una casa che non hanno il denaro per comprarsi, debito di coloro che hanno usato le loro carte di credito o il valore fittizio delle loro abitazioni non per togliersi degli sfizi, ma per pagarsi sanità, pensioni, scuola e università che lo Stato “asociale” non finanzia; o anche solo il cibo spazzatura delle multinazionali, che toglie la fame senza nutrire, ma rendendoti – a tuo pubblico disdoro – obeso.
Quel trasferimento ha eliminato l’equilibrio dei poteri che per decenni aveva cercato e in parte era riuscito a mitigare il dispotismo del regime di fabbrica – e di impresa – con le risorse della conflittualità sindacale – animata o sospinta dall’attivismo dei lavoratori – e con i vincoli di una legislazione sociale e di una politica industriale più o meno dirigista. Adesso quella dismisura si traduce nell’esercizio o nella rivendicazione di un potere pieno e incontrollato del “padrone”, esercitato con il ricatto: “o così, o chiudo; o così o delocalizzo; o così o mando tutti in rovina”. E la si ritrova nel nuovo “regime contrattuale”: i lavoratori delle newCo nate dalle ceneri di Fiat Group saranno assunti con contratti individuali (figuriamoci le “deroghe” che un regime del genere consente!) e ogni azienda si farà il proprio contratto, tagliato sulle proprie misure. Ma questo è il potere dei dinosauri, cresciuti troppo e troppo voraci per resistere al cambio climatico prodotto dalla caduta di un asteroide; e la cui estinzione ha creato lo spazio vitale per una allora minuscola classe di vertebrati, i mammiferi, che ha poi popolato il mondo ed è cresciuta di peso fino a dare vita – tra l’altro – alla nostra specie. Che un tempo si chiamava “umana”.
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