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Materiali per la discussione interna di Alba

Inserito da on Marzo 9, 2013 – 1:06 amNo Comment

Chi o che cosa può aver spinto un gruppo di famiglie di agricoltori e di commercianti rimasti vittime della strage di Piazza Fontana ad andare a cercare fino a Catanzaro, per assumerlo come proprio patrono di parte civile nel processo per la strage, un giovane avvocato fascista, già dirigente cittadino del Movimento Sociale Italiano? I Carabinieri, o meglio, quella parte dell’Arma direttamente legata ai servizi segreti che da allora in poi – o forse da anche prima della strage – si sarebbe adoperata per depistare le indagini, avendo già da tempo designato il colpevole di turno: Pietro Valpreda e il gruppo di anarchici milanesi, tra cui Pino Pinelli. E infatti l’avv. Luigi Li Gotti, affiancato da un altro benemerito della Benemerita, l’avv. Odoardo Ascari, ha cercato di sostenere, fino al processo di Catanzaro ed oltre, la colpevolezza di Valpreda; e si è dato da fare per svalutare gli indizi di colpevolezza sempre più pesanti che si andavano accumulando sui fascisti Freda e Ventura, su Ordine Nuovo e, soprattutto, sui servizi segreti dell’allora SID. Questa vocazione al depistaggio ha avuto modo di farsi valere nuovamente in occasione del processo per l’omicidio Calabresi, dove l’avv. Li Gotti era patrono di parte civile della famiglia Calabresi, sempre per intermediazione di quegli ufficiali dei Carabinieri che avevano istruito il pentito Marino per almeno 15 giorni – ma verosimilmente per molto più tempo – prima di portarlo a confessare, non si sa bene cosa, al sostituto Pomarici, che da un mese trafficava anche lui con gli stessi Carabinieri intorno al covo della BR di via Dogali. Durante uno dei processi di appello (ce ne sono stati tre) Ligotti, su input del capitano dei Carabinieri Dell’Anna, aveva platealmente indicato, insistendo per giorni sull’argomento, ex membri del gruppo Lotta Continua non meglio identificati quali responsabili dell’omicidio di Mauro Rostagno: per farlo tacere, dato che Mauro si sarebbe apprestato a rivelare le responsabilità del suo gruppo in quell’attentato. Era chiaro, anche solo 10 minuti dopo che era stato effettuato, che l’assassinio di Mauro Rostagno, come quello di Peppino Impastato, era opera della mafia, come peraltro sta appurando un procedimento in corso. Eppure per oltre vent’anni, attribuendolo prima a Lotta Continua, poi ai membri della comunità Saman e poi addirittura alla moglie Chicca Roveri, si è cercato di coprire la mafia e di depistare le indagini. A Li Gotti spetta il merito di aver portato il primo e più importante contributo a questa azione di copertura. La carriera di Ligotti non poteva concludersi, per ora, con un altro depistaggio: l’assunzione della difesa del questore Gratteri, responsabile del trasporto nella scuola Diaz di Genova delle molotov con cui si è cercato di giustificare il massacro del G8. Ora ci si deve chiedere come pensa Ingroia di portare avanti in Parlamento la lotta contro la mafia che così meritevolmente ha svolto per vent’anni come magistrato, candidando al primo posto nelle liste di Rivoluzione Civile in Sicilia uno dei principali affossatori della verità su un clamoroso delitto di mafia come l’omicidio Rostagno. Anche tenendo conto del fatto che non si tratta di un “incidente di percorso”, perché la vocazione di Li Gotti era già del tutto chiara all’epoca del processo per la strage di Piazza Fontana, che molti ricordano come processo Valpreda.

 

E’ sbagliato considerare il liberismo solo un sistema di governo dell’economia senza regole – per “loro” – e affidato ai poteri forti: cioè, oggi, alla finanza internazionale. E’ intrinseco al liberismo del nostro tempo anche un sistema politico orientato esclusivamente alla propria riproduzione, che fa da schermo tra le rivendicazioni, le aspettative e le aspirazioni della popolazione e le forze che esercitano il potere. Guardiamo al sistema degli Stati Uniti, dove appena eletto un parlamentare non fa che occuparsi di raccogliere fondi (ovviamente, da chi li ha) per garantirsi la propria rielezione grazie a campagne elettorali sempre più costose. In Italia, più che dai privati, i fondi per la politica si ricavano dai bilanci pubblici e dalle tangenti sugli appalti; ma il sistema è lo stesso; e chi è senza fondi scompare.

Per questo, nel valutare la lista Rivoluzione civile sarebbe sbagliato limitarsi a considerare le enunciazioni “antiliberiste” del suo programma, peraltro raffazzonate all’ultimo momento e destinate a rimanere lettera morta quando le diverse componenti partitiche della lista, una volta elette (se saranno elette) riprenderanno la loro strada in base agli orientamenti delle organizzazioni di appartenenza; orientamenti sui cui, più che il programma della lista, fanno fede i comportamenti passati. Sempre tenendo conto che senza soldi (nel nostro caso senza finanziamento pubblico) queste organizzazioni sarebbero condannate alla scomparsa. Chi aveva più sentito parlare di PDCI o dei Verdi nell’ultimo anno, se non in relazione a Consigli, regionali o municipali, o a Spa ex-municipalizzate, in cui in qualche modo erano rimasti insediati?

E’ implicito – credo – nell’approccio teorico-politico di Alba che l’alternativa all’economia liberista non è un’economia più o meno statalista e centralizzata nel suo sistema decisionale (le nazionalizzazioni: a volte necessarie, ma mai sufficienti), bensì un sistema fondato sul decentramento territoriale, la differenziazione delle soluzioni adottate sulla base dei differenti contesti e la partecipazione popolare, delle comunità, non solo alla gestione delle istituzioni di diritto pubblico, ma anche a quella delle attività economiche. Da questo punto di vista, qualsiasi organismo che trascura, rinnega o addirittura ostacola la promozione di istanze partecipative, a partire da quella elementare di un equilibrio di genere, non può essere considerata antiliberista. E questo, secondo me, è proprio il caso della lista Rivoluzione civile, che della partecipazione alla formazione del programma e alla scelta dei candidati, che era la ragion d’essere di cambiare#sipuò, ha fatto strage. Ma in questo modo viene confermato che i programmi non sono altro che parole, che niente hanno a che fare con la pratica effettiva: una dissociazione che il neoliberismo ha ormai introdotto nella politica in tutto il mondo, ma che in Italia è più vistosa che altrove (pensiamo alla metamorfosi elettorale della cosiddetta Agenda Monti); ed è all’origine del disgusto che la maggioranza della popolazione prova per tutti i partiti. L’obiettivo di Rivoluzione civile è solo ed esclusivamente la perpetuazione e riproduzione di un ceto politico marginale che vivacchia ai bordi del sistema politico dominante, senza proporsi in alcun modo l’obiettivo della conquista della maggioranza. E nemmeno porsi il problema. E che in tal modo si fa identificare dall’elettorato come un pezzo del sistema di potere finalizzato alla perpetuazione dello stato di cose esistente. Per loro, ed è ormai palese, l’obiettivo è solo quello di raccogliere e congelare un piccolo serbatoio di voti, ben delimitato e caratterizzato come “sinistra radicale”, che giustifichi e consenta la loro sopravvivenza. Per noi era, e dovrebbe rimanere, una cosa del tutto diversa. Riporto qui quello che ho detto nella seconda assemblea di cambiare#sipuò di Milano, convinto di interpretare il sentire della maggior parte degli aderenti ad Alba (e se così non è, vuol dire che mi sto sbagliando e sono in attesa di conoscere i punti di vista diversi).

“Noi dobbiamo fare di questa come di ogni altra elezione un momento di vera lotta politica. E questo voleva dire aprire porte e finestre: creare un ambiente in cui si possa dire a quelli di Grillo, a tutti loro, che sono in gran parte giovani, impegnati, antagonisti al sistema, e sempre più insofferenti della gabbia in cui li ha rinchiusi il loro leader: questa e’ la vostra casa. Cioè una casa per voi; per permettervi di fare politica meglio, più liberamente, e in modo più costruttivo di quanto abbiate potuto farla finora. E non una casa per noi, dove accomodarci in attesa che anche quelli di Grillo ci raggiungano. E poter dire e’ la vostra casa anche a milioni di compagni che votano PD o SEL “turandosi il naso”, ben sapendo che tra il macello sociale imposto dall’Agenda Monti e dalla BCE, da un lato, e i diritti dei lavoratori, la difesa del welfare, la conversione ecologica dell’economia per creare milioni di nuovi posti di lavoro – e per salvaguardare quelli che altrimenti scompaiono – dall’altro, il PD sceglierà sempre la prima di queste alternative. E soprattutto per restituire cittadinanza a milioni e milioni di cittadini che non si sentono più tali, e che per questo non votano più, perché sanno di essere stati espropriati del diritto di scegliere tra soluzioni veramente alternative. Per far questo non basta rinunciare alle sigle di partito, occorreva lasciarsi dietro le spalle molto di più: e proporre una rete di candidati che offrissero garanzie di un piena coerenza  tra il nostro programma e il loro impegno nel sociale, nelle lotte, nella battaglia culturale. Certo sarebbe stata un’operazione rischiosa. Bisognava abbandonare molte delle nostre identità, spesso assai logore, senza la sicurezza di ottenere dei risultati immediati. Ma se si vede nelle elezioni solo una tappa di un percorso molto più lungo, la cosa non ci avrebbe dovuto spaventare”.

Certo la partecipazione non può essere considerata come un assetto definito e perfetto di formazione di decisioni condivise, perché è sempre un work-in-progress: un processo che ha un orizzonte chiaro, ma che presenta un numero incredibile di pecche lungo il suo percorso. Noi stessi, nel processo di costruzione di Alba, abbiamo sperimentato e continuiamo a sperimentare questi limiti: Alba è nata per perseguire la democrazia sia all’interno che all’esterno della propria organizzazione (confondendo spesso, secondo me, e fin dal suo manifesto costitutivo, questi due piani); ma si è andata strutturando attraverso processi di affiliazione e di cooptazione, peraltro ineludibili, che di democratico avevano poco. Incappando, tra l’altro, in alcuni passaggi che per me sono dei veri e propri errori (per esempio, con la promozione del metodo party come quintessenza della democrazia senza delimitarne l’ambito di applicazione; e trascurando così una discussione approfondita su come affrontare la gestione di assemblee, sia interne che esterne alla nostra organizzazione, quando questo tipo di preparazione non è possibile. Oppure con la decisione con cui sono state escluse le adesioni collettive; una decisione presa frettolosamente in coda a un’assemblea ormai in via di scioglimento, e forse sulla base di un equivoco tra adesione di gruppo e voto di gruppo; e senza tener conto che Alba è nata soprattutto da una serie di adesioni di gruppo (il che avrebbe dovuto portare a una formulazione statutaria molto semplice, che riproporrò in sede di revisione dello statuto: un collettivo di qualsiasi genere che decide di aderire ad Alba è un nodo di Alba, a cui spetta il compito di decidere come coordinarsi con i nodi eventualmente già presenti sullo stesso territorio).

E ovvio che in molti limiti al pieno esercizio della democrazia si dovesse incappare anche nei processi di partecipazione a istanze pubbliche, come la gestione di un bene comune o, nel nostro caso, la formazione di una lista da presentare alle elezioni: sono processi che devono fare i conti con i tempi – nel nostro caso, strettissimi – con la disparità dei luoghi e delle provenienze sociali e culturali, con le affiliazioni politiche presenti e passate. Ma tra questi limiti e il deserto di partecipazione offerto dalla lista Rivoluzione civile, protagonista di una vera e propria espropriazione nei confronti di cambiare#sipuò, c’è un abisso. Per questo respingo le critiche e le osservazioni di chi sostiene che una presa di distanza dalla lista Rivoluzione civile è cosa da schizzinosi, da snob o da irresponsabili che non si curano della situazione delle persone sfruttate o emarginate. In realtà questa storia è cominciata – e va ricostruita – da lontano: da prima della costituzione di Alba. La proposta di una lista nazionale di cittadinanza (o “dei sindaci”) da presentare alle elezioni del 2013 (allora previste per aprile-maggio) era sta lanciata al convegno del gennaio 2012 di Napoli promosso da De Magistris. A me che non avevo allora alcuna affiliazione ed ero orientato a non partecipare a quell’incontro, era stato chiesto solo il giorno prima di coordinare uno dei tre gruppi – quello sull’ambiente – in cui sarebbe stato articolato il lavoro assembleare. Avevo accettato e recatomi all’appuntamento con il collettivo che avrebbe dovuto preparare l’incontro, dopo molte attese e in un via vai continuo dei responsabili intervallato da continui squilli dei telefonini (con relative risposte), avevo constatato che non c’era alcuna idea di come condurlo. Fissate alcune regole – alternanza uomo-donna negli interventi, rigidamente limitati a 5 minuti, introduzione e conclusioni affidate al sottoscritto, limitazione degli interventi all’esposizione o alla discussione di progetti e proposte, escludendo mere narrazioni e presentazioni di contesti locali – ci siamo poi di fatto trovati di fronte a un “gruppo di lavoro” di oltre 400 persone e a un dibattito sicuramente costruttivo nelle intenzioni anche se non molto produttivo, per ragioni di forza maggiore. Di tutto il lavoro fatto nulla era stato però riportato in assemblea plenaria – anche perché il relatore incaricato di farlo si era assentato per la maggior parte del tempo – e così credo degli altri gruppi di lavoro. In compenso avevamo assistito a una passerella (De Magistris, Vendola, Zedda, Emiliano. Assenti Pisapia e Doria) di interventi che prescindevano completamente non solo dai contenuti del dibattito nei gruppi di lavoro, ma che non assegnavano agli oltre 1500 partecipanti alcun ruolo, né allora né in futuro. Molte cose erano dunque già chiare.

Il progetto di una lista dei sindaci ha poi visto progressivamente defilarsi tutti i promotori tranne De Magistris, il quale però ha continuato a far riferimento a quel progetto fino a che, con la comparsa di cambiare#sipuò, ha virato tirando fuori dal cappello un per me fantomatico “movimento arancione”, che a quanto ne so ha convocato solo due incontri, entrambi a ridosso di quelli nazionali di cambiare#sipuò, senza precisare fino all’ultimo se sarebbe confluito, come altre forze organizzate, in questo raggruppamento, o avrebbe mantenuto la propria indipendenza. In realtà, fino all’assemblea del 22 dicembre molti, tra cui io (l’ingenuo; ma se ne avessimo discusso a sufficienza, alla fine avrei capito anche io) erano convinti – e si sono comportati di conseguenza – che De Magistris e il suo “movimento”, che nel frattempo avevano presentato la candidatura di Ingroia a capolista – condivisa per acclamazione, a quanto ne so (non c’ero) dall’assemblea del 1 dicembre di  cambiare#sipuò – sarebbero confluiti in cambiare#sipuò per formare un’unica lista. Ancora nell’assemblea del 22 dicembre de Magistris aveva presentato la futura lista come il frutto di un accordo tra due soggetti – cambiare#sipuò e il movimento arancione – a cui i partiti costituiti avrebbero fornito il loro appoggio esterno, secondo quanto anche Ingroia, nella sua adunata del 21 dicembre aveva esplicitamente prospettato. Di fatto De Magistris è stato il cavallo di Troia per fare entrare nella lista i partiti, nessuno dei quali aveva la forza per presentarsi da solo, né avrebbero mai avuto la possibilità di presentarsi insieme senza la copertura di cambiare#sipuò (il movimento arancione essendo inesistente), per poi estromettere cambiare#sipuò, e accentrare tutto nelle segreterie, restituendo un ruolo persino a Di Pietro, il quale ha “i soldi” per finanziare la campagna di Ingroia e della sua lista. E’ impossibile negare che siamo stati giocati. La possibilità che cambiare#sipuò presentasse una sua lista – e riuscisse a raccogliere le firme necessarie – era legata alla eventualità che nessun altra organizzazione della sinistra lo facesse; e nessun altra organizzazione, fino all’ingresso di Ingroia nell’arena, e senza la mediazione di De Magistris, era di fatto in grado di farlo. Il tentativo in extremis di Mattei di bloccare questa deriva proponendosi in alternativa a Ingroia è stato sicuramente tardivo e inutile. De Magistris e Ingroia avrebbero dovuto venir bloccati prima ponendo loro un secco aut aut già all’assemblea del 1°dicembre : o dentro o per conto vostro. E’ ovvio che nessuno, né in Alba né in cambiare#sipuò, è responsabile di quanto è successo; ma occorre che ci diciamo che è mancata una direzione politica tempestiva sia al nostro interno che “all’esterno” (cioè in cambiare#sipuò); il che ci pone in termini assai più complessi di fronte al problema della democrazia partecipativa: cioè al rapporto tra partecipazione e direzione politica. Senza una direzione politica chiara ed efficiente la partecipazione deperisce. Basta pensare al rapporto anche numerico tra le prime assemblee territoriali di cambiare#sipuò e quelle successive all’assemblea nazionale del 22 dicembre. In mezzo non c’è stata solo l’eclisse di una prospettiva, ma anche il caos di un’assemblea finita a rotoli, non certo per responsabilità di chi la presiedeva, ma per il fatto che nelle riunioni di Alba e di cambiare#sipuò della sera precedente non ne erano stati prospettati in maniera sufficientemente chiara i possibili esiti. Dirigere un’assemblea – ma anche un movimento – significa prevedere i possibili esiti di ogni singolo passaggio rilevante; e per ciascuno di questi possibili esiti (non possiamo prevedere quello vincente, né tanto meno imporne uno, altrimenti non saremmo Alba) predisporre delle mosse per riorientare il percorso verso gli obiettivi che riteniamo giusti (e che possono anche cambiare in base allo sviluppo degli eventi). Questo non abbiano saputo fare, non solo nell’assemblea del 22 dicembre, ma anche in quella del 1°, e forse anche prima. Ma sbagliando si impara. L’importante è per me separare nel modo più netto Alba dalle vicende della lista Rivoluzione civile.

 

La discussione sulle regole – diritti e obblighi – dell’adesione ad Alba deve patire dal contesto in cui ci troviamo o intendiamo operare: cioè dal rapporto tra Alba e “movimenti”, tra Alba e “società civile”, che non sono la stessa cosa, tra Alba e partiti (meno che mai), tra Alba e istituzioni costituite. I livelli sono molteplici.

Alba è nata dall’adesione al manifesto per un soggetto politico nuovo; ma include solo una parte di coloro che l’hanno sottoscritto (e forse anche qualcuno, o diversi, che non l’hanno sottoscritto). Questa riduzione non va vissuta come una perdita: dobbiamo ritenere che ci siano molti che condividono lo spirito di quel manifesto e che intendono lavorare per la creazione di un soggetto politico nuovo come quello delineato nel manifesto rimanendo nella collocazione in cui già si trovavano. Questo pone un primo problema: abbiamo fatto poco per individuare e mantenere i contatti con tutti quelli che hanno firmato il manifesto; per capire in che cosa sono impegnati e per cercare di coordinarci con quello che stanno facendo.

In secondo luogo Alba non è il soggetto politico nuovo promosso dal manifesto, ma è una organizzazione o una delle organizzazioni che lavorano per promuoverlo: guai a rivendicare l’esclusiva di un progetto che verosimilmente coinvolge o interessa a migliaia di persone, di cittadini, di comitati, di organizzazioni che lavorano per conto loro in vista di un obiettivo più o meno simile.

Terzo: il soggetto politico nuovo non è un’entità, ma un processo, un work in progress: Non ha e non può avere una sua identità definita e chiusa (e questo è detto a chiare lettere nel nostro manifesto), perché deve essere e rimanere aperto a ogni forma di diversità capace di convergere su obiettivi comuni;

Quarto, il soggetto politico nuovo – e a maggior ragione Alba – sono cosa diversa dai “movimenti” o dalla società civile, perché raccolgono  l’azione organizzata di chi lavora per connettere tra loro movimenti e/o iniziative della società civile settoriali o locali. I movimenti sono processi caratterizzati da una più o meno solida continuità, da momenti di mobilitazione più o meno di massa, da forme di partecipazione che vanno molto al di là delle strutture organizzate che li promuovono (pensiamo al movimento NoTav, che non si identifica con i comitati che ne promuovono le mobilitazioni o ne garantiscono la continuità, ma con una parte probabilmente maggioritaria della popolazione della Valle Susa e, da tempo, con una partecipazione a livello nazionale di gran parte delle mobilitazioni che si sviluppano per i motivi più vari). Le lotte, come scioperi o occupazioni, sono spesso fenomeni più effimeri, anche se dicisivi nel definire il contesto in cui operaiamo. Le iniziative della società civile esistono anche in assenza delle mobilitazioni di massa che caratterizzano invece i movimenti e sono in genere caratterizzate da un livello maggiore di specializzazione: tipiche sono molte iniziative in campo culturale (da un cineforum a una associazione di lettura o di dibattito), come in campo legale (difesa di particolari categorie di cittadini: detenuti, bambine, Rom, immigrati, ecc.) o nel campo della cosiddetta altra economia (per es. i GAS). A queste iniziative andrebbe dedicata un’attenzione pari a quella che riserviamo ai movimenti, anche se in genere se ne parla molto meno;

Quinto. Puntiamo a contaminare le istituzioni, a tutti i livelli, con la presenza dei movimenti.  Le istituzioni non sono solo quelle previste dagli istituti della democrazia rappresentativa (Parlamento, Consigli e Giunte regionali, provinciali e comunali). Ce ne sono molte altre, dalle ASL all’esercito e alle polizie, dagli enti pubblici alle SpA che fanno capo agli Enti locali. Mano a mano che ci si allontana dagli organismi di rappresentanza, la contaminazione con le istanze del movimento diventa più difficile e rischiosa (è più facile la cattura nei meccanismi di una gestione privatistica o clientelare, come insegnano, molte esperienze negative in corso nelle SpA ex-municipalizzate), ma non può essere esclusa a priori. In molti casi già oggi succede che alcune istituzioni (es. piccoli comuni) siano di fatto già parte non solo di un movimento, ma anche del processo di costruzione del soggetto politico nuovo, perché sono impegnate a elaborare e applicare le regole della democrazia che il soggetto nuovo persegue. Poi ci sono i partiti e i sindacati. Non sono tutti uguali e con alcuni abbiamo sicuramente una maggiore affinità che con altri. Ma le critiche che il nostro manifesto rivolge ai partiti (tutti) escludono che possiamo considerarli parte del processo di costruzione del soggetto politico nuovo; anzi, nella maggior parte dei casi li incontriamo come ostacoli al rinnovamento delle pratiche politiche, intenti ad affermare la loro esistenza, la loro presenza, la loro continuità (cambiare si può insegna). Quanto ai sindacati, alcuni sono sicuramente parte o protagonisti dei movimenti con cui intendiamo collaborare, anche se dobbiamo prestare forse maggiore attenzione alle numerose contraddizioni presenti: per esempio tra Fiom e sindacati di base, con i quali abbiamo troppi pochi rapporti; o, nel caso specifico, tra Fiom e Cittadini e lavoratori liberi e pensanti di Taranto, ecc.

Detto questo, penso che dobbiamo lavorare per caratterizzare di più Alba come puto di incontro e di confronto tra movimenti, e tra iniziative della società civile. Questo significa che ogni aderente ad Alba dovrebbe cercare innanzitutto di caratterizzarsi per la sua partecipazione attiva a uno o più movimenti, iniziative civili, comitati, centri sociali, senza mettere al primo posto problemi di inclusione e tanto meno di reclutamento: individuare i problemi che il movimentoo  l’organismo alla cui vita partecipa si trovano di fronte e vedere se in Alba, grazie al rapporto che i suoi membri hanno con altre realtà, si riescono a trovare suggestioni o a promuovere iniziative per affrontarli meglio. In altre parole il nostro impegno prioritario – quello che una volta si chiamava la “militanza” – dovrebbe essere all’interno dei movimenti, delle lotte e delle iniziative della società civile, mentre Alba dovrebbe essere solo la sede in cui qualifichiamo la nostra presenza nei movimenti e nella società grazie a collegamenti, confronti, discussioni e attività di formazione che ci permettono di trasmettere una visione più ampia e più strategica dei problemi che dobbiamo affrontare. L’”identità” di Alba, più che in una linea politica definita, dovrebbe dipendere dal ruolo che si assume e quindi dalla sua effettiva “apertura” nei confronti dei processi in corso.

Passando alle regole dell’adesione e della vita interna, io penso che:

  • Alba non è nata da una esperienza precedente, anche se in Alba sono confluiti diversi gruppi già organizzati: quindi non ha dovuto riformare in senso democratico regole già in vigore, ma istituirle dal nulla. Quindi, se vogliamo, è nata in modo non democratico (diretta dai primi firmatari del manifesto) e lo stesso è successo in molte sedi. L’assemblea nazionale, a cui ha partecipato solo chi aveva tempo e denaro per venire, ne è un altro esempio; ma è stata un passaggio obbligato verso una organizzazione migliore e più democratica. Soprattutto è ancora difficile procedere a elezioni di livello nazione in un contesto in cui ci conosciamo ancora troppo poco reciprocamente. Questo verrà con il tempo.
  • E’ necessario affrontare in forme più determinate le diverse forme di partecipazione che proponiamo sia per la vita interna di Alba che per la costruzione del soggetto nuovo e per quella dei movimenti come per il concorso alla gestione dei beni comuni. Il nostro manifesto ne elenca cinque: quella prevista dalla convenzione di Aarus, quella istituita dal Laboratorio di Napoli, il referendum on line, il sistema Party, il bilancio partecipato di Porto Alegre, senza specificare a sufficienza i relativi contesti. Alcune possono essere praticate solo in situazioni in cui sono presenti pochi partecipanti (2-300 al massimo per party); altre possono dar luogo a fenomeni di “cammellaggo” (per esempio il referendum on line di cambiare si può); alcune prevedono un coinvolgimento delle istituzioni (Porto Alegre, il laboratorio di Napoli e, in parte, la convenzione di Aarus, che potrebbe anche venir promossa in situazioni di conflitto con le istituzioni). In generale il nostro manifesto non tiene conto del fatto che situazioni di mobilitazione generale e di conflitto aperto non consentono per lo più forme di partecipazione molto regolamentate, soprattutto perché in questi contesti va privilegiata la partecipazione di nuovi soggetti rispetto alla loro regolazione, mentre le soluzioni molto regolamentate, tipo party, sono possibili solo all’interno di contesti prevedibili e programmabili, di ampio respiro e di lunga lena;
  • Anche all’interno di Alba, bisogna contemperare la volontà di costruire democraticamente una prospettiva condivisa da tutti con il fatto di potersi trovare improvvisamente di fronte a situazioni e decisioni che non possono essere discusse in forme e con tempi che sarebbero auspicabili in contesti differenti. Scadenze imposte dal contesto non possono essere eluse rimandando le scelte sine die, cioè a un chiarimento che richiede tempi eccessivi che se non viene fatta per tempo in pratica corrisponde a una scelta in un senso o nell’altro
  • Alba, in molti casi, è nata dall’adesione collettiva di comitati, reti o organismi – tra loro molto diversi – che esistevano e operavano già prima. E’ stato quindi sbagliato, secondo me, adottare nello statuto una norma che escludeva le adesioni collettive, confondendole forse con il voto collettivo (che ovviamente va escluso, ma che effettivamente era stato proposto da alcuni). La regola per me dovrebbe essere questa: un collettivo di qualsiasi genere che decide di aderire ad Alba è un nodo di Alba, a cui spetta il compito di decidere come coordinarsi con i nodi eventualmente già presenti sullo stesso territorio.
  • Importante è non confondere collettivi, movimenti e istituzioni: un collettivo può aderire ad Alba; un movimento no (non ha e non può avere una voce univoca; né al momento dell’adesione, né, soprattutto, dopo; una istituzione, per esempio un piccolo comune, può concorrere al processo di formazione del soggetto politico nuovo, ma non può aderire a una organizzazione come Alba.
  • Formalizzare l’adesione ad Alba è indispensabile per poter prendere al nostro interno legittimamente decisioni condivise che non riguardano le scelte immediate e imprevedibili, ma analisi e strategie di lungo periodo. Ma bisogna evitare di trasformarla in un processo identitario.
  • Lo statuto di Alba ammette la doppia affiliazione. Quello dei partiti, con l’eccezione del Partito Radicale, no. Questo basta a limitare molto il fenomeno, che pure è presente in alcuni casi individuali. Non mi pare che per noi costituisca un problema, anche perché spesso è una manifestazione di contestazione delle troppe rigidità presenti nei partiti e in ogni caso è destinato a rimanere, per chi lo pratica, un fenomeno temporaneo.
  • Diverso è il caso delle aggregazioni promosse da Alba o a cui Alba partecipa o ha partecipato, come ambiare si può. Qui va detto che l’errore principale, non imputabile a nessuno in particolare e a tutti in generale, è stato affidarne le sorti a un referendum on line aperto a chiunque, e quindi diverso e opposto a quel confronto diretto che per noi deve costituire la base di ogni forma di partecipazione (diverso è il referendum on line fatto per motivi logistici, su temi che sono stati affrontati in misura adeguata nei singoli nodi). Ma va detto che queste aggregazioni sono per definizione delle arene aperte, in cui l’esito del confronto – o dello scontro – non può essere deciso a priori, ma dipende dalla nostra capacità di portare a un chiarimento dei termini delle divergenze e soprattutto dal nostro impegno a “conquistare la maggioranza”, cioè a fare prevalere democraticamente il nostro approccio ai problemi, con un lavoro capillare e articolato. Che dovrebbe essere il nostro impegno in tutti i campi da ora in poi.

 

 

 

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