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Medici e gli altri, il primo passo (“il manifesto”, 25 maggio 2013)

Inserito da on Maggio 28, 2013 – 9:28 amUn commento

Che il PD nella fase della sua dissoluzione sarebbe finito, insieme al suo “facilitatore” Napolitano, in bocca a Berlusconi, fino a subirne anche le imposizioni più oscene e umilianti, era prevedibile fin da quando aveva fatto la scelta di sostenere Monti invece di affrontare una verifica elettorale che, prima del logoramento prodotto dal “governo tecnico”, lo vedeva, allora sì, sicuramente vincente. Ciò che gli ultimi due anni hanno messo pienamente in evidenza agli occhi di tutti è che il PD non è un partito di governo. Perché non è, e da tempo, in grado di assumere la responsabilità di governare, se non in compagnia di altre forze che possano essere presentate come “imposte dalle circostanze”. Da quando è scoppiata la crisi il PD sa – lo sa la sua nomenklatura – di non potersi addossare da solo la paternità della “macelleria sociale” imposta dai vincoli del patto di stabilità europeo e, più in generale, dall’assetto economico e sociale di un mondo completamente dominato dalla grande finanza. E non può imboccare scelte alternative a questo vero o presunto “stato di necessità” perché non ha né la cultura né le capacità per farlo.

Non ne ha la cultura perché ha da tempo rinunciato a pensare – se mai lo ha fatto – che “un altro mondo è possibile”. Per il PD il dogma thatcheriano “non c’è alternativa” – al dominio incontrastato dei mercati, cioè della finanza, cioè del capitale nella fase in cui il suo modo di operare è ormai priva tanto di un rapporto diretto tra capitale e lavoro (la finanza comanda per interposte figure) quanto di qualsiasi mediazione – quali che ne siano le conseguenze, è inappellabile. Perché pensare in modo diverso richiede una pratica diversa da quelle in cui da anni si sono andati avviluppando sia il suo gruppo dirigente che il quadro intermedio (in un contesto di progressiva “evaporazione” di una base che non sia puramente elettorale).

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Una cultura alternativa vuol dire innanzitutto una prospettiva radicalmente diversa da quella attuale per l’Europa, che è il vero teatro dove si gioca il futuro della società in cui viviamo: un’Europa dei popoli, che rimetta nelle mani della sua cittadinanza attiva le scelte fondamentali della politica economica e sociale (e anche estera, là dove si decide della pace e delle guerre); che è l’esatto opposto della subordinazione passiva alle regole attuali, sempre dettate dall’alta finanza anche quando si mascherano dietro quegli “egoismi nazionali” e quelle pulsioni populiste che stanno portando la costruzione europea allo sfascio.

Poi vuol dire un programma di sostenibilità ambientale che imponga una radicale conversione ecologica nelle produzioni e negli stili di vita: cioè una vera politica industriale – sempre invocata “a sinistra”; ma mai specificata o articolata – che sia ispirata al rispetto delle compatibilità ambientali (in particolare per quanto riguarda le politiche energetiche, la gestione del territorio e quella delle risorse e dei rifiuti); a criteri di riterritorializzazione (ossia di rilocalizzazione) delle produzioni e di valorizzazione delle risorse naturali, culturali e umane di ogni singolo contesto.

Vuol dire infine mettere al centro della politica i diritti: quelli delle persone, nella vita quotidiana, dove sono in gioco nascita e morte, ma anche e soprattutto tutela della vita: che non vuol dire costringere a nascere chi non è stato desiderato e impedire di morire a chi non ha altra prospettiva; vuol dire innanzitutto difesa della salute, di un’alimentazione sana e sufficiente, diritto a un reddito, a una casa, a una famiglia, ad avere dei figli anche quando si è senza lavoro; poi i diritti dei cittadini, con un contrasto vero alla criminalità con cui tutto il nostro ceto dirigente – sia politico che imprenditoriale – si è abituato a convivere, se non a praticarla direttamente; e diritto dei lavoratori, nelle imprese e nel loro rapporto con il mercato del lavoro, a decidere le condizioni del proprio impegno; infine, diritto per tutti a una partecipazione effettiva alla vita pubblica e alle decisioni che riguardano tutti: cioè democrazia partecipata.

Il PD non ha la capacità – o la volontà – di perseguire, o anche solo di pensare, tutto ciò proprio perché un’alternative alle dinamiche attuali del sistema economico esige innanzitutto partecipazione attiva della cittadinanza a tutte le principali scelte di fondo; una partecipazione incompatibile con il mantenimento delle posizioni di potere, grandi, piccole o anche solo presunte, di chi se le è accaparrate con la “politica”. Si obbietta che la democrazia partecipativa è solo un’utopia; che la “gente” non è veramente interessata a partecipare; che preferisce delegare. In parte è vero: “partecipare” è difficile e non ne abbiamo né l’abitudine né la formazione sufficiente. Ma promuovere la partecipazione è arduo soprattutto perché ben pochi sono disposti a “perdere il loro tempo” quando vedono che le loro decisioni non vengono mai rispettate. Per esempio, sono ventitré anni che gli abitanti della Valle di Susa si oppongono al TAV e se la loro lotta è diventata un esempio di costanza – ma anche di crescita politica e umana – per tutto il paese, tutti possono anche vedere che non ha smosso di un dito la determinazione dei tanti governi, e soprattutto del PD, a violare in ogni modo la loro volontà: con la disinformazione, la calunnia, la persecuzione giudiziaria, la militarizzazione, le alleanze con la Lega e il partito di Berlusconi; anche a costo di perdere il governo della Regione (proprio in quella valle, infatti, e proprio per questo, si sono svolte le prove generali delle cosiddette “larghe intese”). Poi la maggioranza assoluta degli elettori italiani si è espressa contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali con un referendum; ma non era passato un giorno da quel risultato che già di dirigenti del PD nelle amministrazioni locali e nelle partecipate discutevano pubblicamente di come aggirare quel divieto, spianando la strada prima a Berlusconi e poi a Monti, che hanno varato ben quattro leggi – tutte controfirmate da Napolitano; e la quarta anche dopo che la Corte costituzionale le aveva giudicate illegittime – per azzerare la volontà degli elettori. E ancora, nelle ultime elezioni tre quarti dell’elettorato italiano, con il non voto, il voto al movimento Cinque stelle o quello al centrosinistra (che si era presentato in radicale contrapposizione a Berlusconi) hanno espresso la loro volontà di farla finita con il caimano e la sua corte: con il risultato di ritrovarselo vero padrone dell’operato e dei destini del governo. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Il lavoro di costruzione di una forza in grado di riaprire la prospettiva di un cambiamento radicale è poi l’unico modo per rispondere all’aumento verticale della miseria, della disoccupazione, alla disgregazione del tessuto produttivo, alla dissoluzione della convivenza civile, all’azzeramento dell’idea stessa di democrazia; ma deve fare i conti con questo contesto.

Deve innanzitutto riaprire una prospettiva praticabile sul terreno culturale: gli elementi per farlo ormai ci sono tutti: in campo scientifico e tecnico, nel recupero di molti saperi tradizionali; nell’esperienza che si può ricavare da mille buone pratiche; ma questi elementi hanno bisogno di essere combinati – senza presumere di poterne fare una “sintesi” – e valorizzati in tutte le loro potenzialità. E poi diffusi; la cultura mainstream li avversa e li ignora; ma quello che propone – i saperi dei Monti e delle Fornero (e ne abbiamo potuto misurare la consistenza); o le false ricette di Draghi che ogni giorno promettono una svolta; o l’inconsistenza di quelle di un Giavazzi, di un Galli della Loggia o di un Fassina – alla fine confluisce tutto nel grande alveo del berlusconismo: che non è una prerogativa esclusiva del caimano, ma una “cultura” che sta dilagando, insieme al populismo, in tutta l’Europa.

Ma soprattutto le mille pratiche sociali e di lotta in corso devono riuscire a ricomporsi in un fronte comune: non c’è nessuno che possa farlo al posto loro; o sovrapponendosi a loro; o evitando di fare i conti con il loro protagonismo. Non ci sono scorciatoie; ma le occasioni e gli strumenti per promuovere queste aggregazioni non vanno trascurati. Le scorse elezioni avrebbero potuto essere una prima occasione per promuovere un punto di riferimento a queste forze sociali e culturali disperse: cambiare si può era nato con questo intento. A strangolarlo, al di là della debolezza intrinseca di un esperimento troppo affrettato, ci ha pensato allora la protervia vacua di quegli organismi ormai morti che si sono raccolti intorno ad Antonio Ingroia. Oggi, nella imminente scadenza del 26 giugno molte forze che fanno riferimento al lavoro sul territorio, alla prospettiva di una loro ricomposizione a livello programmatico, senza riciclare vecchie sigle e alleanze, ritentano, su basi più solide perché più direttamente legate al lavoro svolto per anni sul territorio, di offrire a tutti un punto di riferimento non solo locale. Sono liste di cittadinanza radicalmente alternative alla riproposizione di una prospettiva che non vede altra possibilità di progresso se non nel condizionare “in qualche modo” il PD. A queste liste è affidato un passo piccolo ma importante su una strada difficile ma irrinunciabile.

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