Prefazione al libro di Cohn Bendit, “Osare di più” (Edizioni dell’asino)
In questo libretto, che raccoglie alcuni dei suoi più recenti interventi legati al lancio della lista Europe Écologie, come in tutta la sua ormai lunga biografia politica e culturale – a partire dalla sua partecipazione al gruppo 22 marzo, che era stato il fattore di innesco del maggio francese più di 40 anni fa, e passando per la costituzione del gruppo francofortese Revoltionär Kampf e poi alla promozione del partito dei Verdi della Repubblica federale tedesca – Daniel Cohn-Bendit unisce passione, intelligenza e impegno.
E, come conseguenza non automatica, ma certamente legata all’esplicitarsi di queste doti, ci fornisce la spiegazione del successo di questa sua ultima iniziativa. Successo che è un obiettivo a cui troppi di noi in Italia sembrano essersi abituati a rinunciare in partenza, trascinati molto spesso da una sorta di cupio dissolvi.
Certo questi scritti non contengono la “ricetta” del successo; una ricetta che non esiste; la strada del successo ciascuno la deve cercare e saper trovare nelle condizioni specifiche del proprio agire collettivo. Ma certo questi scritti sono diretti a illustrare più che il Che fare? – titolo, dal tono esplicitamente ironico, di un altro recente libro di Cohn-Bendit – il Come fare? Cioè come disporsi in un atteggiamento non settario, di apertura nei confronti delle sfide della nostra epoca, avendo il coraggio di misurarsi con i suoi problemi più generali e globali. Problemi che per Cohn-Bendit trovano la loro silloge nel progetto di una nuova Europa: un termine che non a caso ha voluto affiancare a quello di ecologia, che del progetto connota orientamento e indirizzi.
Il Come fare? rimanda innanzitutto alla scelta di “saltare” le mediazioni di partiti e associazioni consolidate e soprattutto quelle dei loro vertici, prigionieri di una pervicace volontà di conservare, se non il proprio “potere” – a volte tanto piccolo da risultare inconsistente – una vera o presunta, ma comunque paralizzante, “ragion d’essere” delle rispettive organizzazioni. Cohn-Bendit punta invece – e lo valorizza – sul contributo effettivo, in termini di analisi, di elaborazione e di proposta, che possono offrire singole personalità, esperienze di base o organismi impegnati nel confronto serrato con i problemi del presente, indipendentemente dal loro “posizionamento” rispetto agli schieramenti politici.
Ma la chiave del successo è senz’altro la capacità di cogliere – che è un “portare alla luce” attraverso un agire che richiede, appunto, passione, intelligenza e impegno – le potenzialità offerte dalla riconversione di quell’assetto produttivo e sociale che ha retto, e portato sull’orlo della catastrofe, non solo economica, ma soprattutto ambientale, lo sviluppo produttivo e il processo di globalizzazione degli ultimi decenni. Una conversione che è al tempo stesso una necessità improcrastinabile e una straordinaria opportunità per instaurare delle relazioni diverse tanto tra l’umanità e il suo ambiente, quanto tra i membri di una stessa comunità, e tra i popoli e i paesi della comunità internazionale.
E’ una riconversione che riguarda tanto i nostri stili di vita, i nostri modelli di consumo, che devono inevitabilmente fare spazio ad aspirazioni e opportunità di chi finora ne è stato escluso, quanto la struttura produttiva e il tessuto industriale che quel modello di consumo hanno promosso, alimentato e imposto, anche a costo di infliggere danni crescenti all’ambiente, all’equità, alla convivialità. Una trasformazione, insomma, che risponda al senso che Alex Langer aveva voluto dare all’espressione “conversione ecologica”, in modo da abbracciare e rendere inscindibili tanto un cambiamento spirituale, interiore, del nostro atteggiamento verso il mondo, l’ambiente, gli altri, improntato a una maggiore sobrietà, a una più forte solidarietà, a una riscoperta della delicatezza, quanto una corposa trasformazione materiale delle strutture sociali e produttive in cui siamo inseriti, indirizzandole a un minore dispendio di risorse, a una accresciuta efficienza, a una maggiore equità.
Niente illustra meglio questo assunto della parabola storica della merce “automobile”, su cui Cohn-Bendit richiama l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine di questo libretto. L’industria automobilistica e la motorizzazione di massa hanno attraversato lo sviluppo economico e plasmato il volto – sociale, culturale, produttivo – di un intero secolo; ma oggi, e ormai da tempo, si sono rivelati un sistema e un prodotto non più sostenibili: sia dal punto di vista economico – i mercati occidentali sono ormai saturi e i grandi paesi emergenti non vengono certo a rifornire i loro nuovi parchi automobilistici dalle nostre industrie; caso mai fanno il contrario – sia dal punto di vista ambientale: il consumo di spazio, di materiali, di risorse energetiche, di ambiente, generato dalla motorizzazione di massa è già oggi catastrofico e lo sarà ancor più drammaticamente se procederà secondo le tabelle di marcia la motorizzazione del resto del pianeta o di una parte consistente della sua popolazione.
Eppure i governi di tutto il mondo industrializzato si affannano a sostenere con gli incentivi più svariati l’industria automobilistica, che, dopo le banche, è stata sicuramente la principale e quasi esclusiva beneficiaria delle risorse messe in campo per contenere gli effetti della crisi e per fornire degli “stimoli” all’economia. A scapito del trasporto pubblico, cioè condiviso, di massa o flessibile; delle fonti energetiche rinnovabili; delle misure di efficienza energetica; del contenimento e della prevenzione dei dissesti idrogeologici; della ristrutturazione dell’habitat urbano; di un’agricoltura sostenibili e di prossimità: tutte cose che avrebbero potuto – e ovviamente ancora possono – rappresentare una valida alternativa, sia in termini di occupazione che di miglioramento della qualità della vita, agli attuali modelli di produzione e consumo, comunque votati a un irreversibile declino.
Inoltre si tratta in tutti i settori citati, di interventi che allontanerebbero gli effetti più gravi della crisi ambientale e riequilibrerebbero, in termini di consumo di risorse, sia le sperequazioni tra Nord e Sud del pianeta, sia, all’interno dei diversi paesi e, in particolare, di quelli più poveri, le disparità sociali; innanzitutto, le disparità, vistosissime nei paesi più poveri, tra una classe privilegiata, ormai tutta largamente motorizzata – a suon di suv – e una maggioranza a cui sono negate le più elementari forme di mobilità.
L’esempio dell’industria dell’auto è sufficiente per permettere a Cohn-Bendit di prendere posizione nel dibattito sulla “decrescita”: è alle cose concrete che bisogna guardare e non ai loro valori monetari che si esprimono nel PIL. La produzione di prodotti dannosi deve decrescere; quella dei beni e dei servizi che migliorano qualità della vita e ambiente deve svilupparsi. Il bilancio tra questi opposti indirizzi non può certo essere misurato solo né principalmente in termini monetari.
Ma se la comprensione di queste cose è oggi alla portata di tutti, anche se la loro realizzazione è ancora molto lontana dalle scelte politiche delle classi dirigenti, sia di destra che di sinistra, perché mai in Italia non si è riusciti nemmeno a costruire un partito o un’organizzazione verde in grado di confrontarsi seriamente con questi temi? Che cosa ci impedisce di imboccare una strada come quella che ha portato al successo della lista Europe Écologie?
Cohn-Bendit, che conosce la situazione italiana molto bene e parla l’italiano benissimo ci dà la sua risposta: innanzitutto i verdi italiani hanno sempre seguito la strada di accordi di vertice con altre formazioni sia al governo che all’opposizione, invece di cercare l’accordo su programmi costruiti valorizzando esperienze ed elaborazioni indipendenti. Una pratica che ha assimilato i verdi italiani a un costume diffuso tra tutti il ceto politico del paese, tanto nella prima che nella seconda repubblica. Il nostro è un paese dove fare politica significa innanzitutto accaparrare un posto di lavoro ben retribuito, per sé e i propri congiunti, da difendere a qualsiasi costo. In questo modo, invece di “contaminare” – come si usa dire in gergo culturale – le altre forze politiche con saperi, peraltro scarsamente padroneggiati, che hanno comunque il vantaggio di essere “trasversali” sia rispetto alle diverse culture politiche che alle molteplici competenze amministrative e di governo, sono stati i verdi ad essere contaminati – nell’accezione epidemiologica del termine – dai miasmi che emanano dalla palude della politica italiana.
In secondo luogo, gli accordi dei verdi italiani sono stati fatti prevalentemente, o quasi esclusivamente, con altre formazioni politicamente connotate come di “estrema sinistra”; cosa che ha fatto dei verdi un’appendice dei residui, o dei residui dei residui, rilasciati dalla dissoluzione del movimento operaio italiano, invece di qualificarsi come una forza capace di guardare al futuro più e meglio di altri.
Ma la tara maggiore dei verdi italiani è quella di non aver voluto – e forse nemmeno saputo come e perché – mettere in discussione le premesse produttivistiche e “sviluppiste” che accomunano la cultura di sinistra, tanto “marxista” che riformista – o, in entrambi i casi, sedicente tale – al credo e alle pratiche, ieri dirigiste oggi ultraliberiste, e poi forse di nuovo dirigiste, dell’establishment politico, industriale e accademico. Condannandosi così a una subalternità di secondo grado nei confronti delle forze che sono alla guida della devastazione del pianeta.
Naturalmente non possiamo pensare, qui in Italia, di ripercorrere oggi pedissequamente la lunga e non sempre lineare strada che ha portato la passione, l’intelligenza e l’impegno di Daniel Cohn-Bendit e i suoi compagni di lista a conseguire i successi che hanno arriso alla sua più recente iniziativa politica. Accogliere il suo insegnamento comporta piuttosto, per noi, partire, o cercare di ripartire, dal punto a cui lui ci ha accompagnato finora con le sue riflessioni: cioè dal fatto che la sfida planetaria di questo secolo si affronta mettendo al centro dell’analisi, dell’elaborazione, della proposta e dell’impegno di tutti il tema della conversione ecologica dell’assetto produttivo e dei modelli di consumo, nel senso in cui l’aveva a suo tempo prospettata Alex Langer; e facendo leva, come già Alex aveva cercato di insegnarci, sulle potenzialità messe a disposizione dalla nostra appartenenza al comune contesto europeo: Europa e ecologia.
La risposta alla crisi occupazionale non può consistere nel creare o perpetrare comunque occupazione fittizia, come quella in cui si sono specializzate le classi dirigenti del mezzogiorno italiano, ma non solo loro; bensì individuare le cose da fare e gli interventi da mettere in cantiere per salvaguardare l’ambiente e le condizioni di vivibilità di noi tutti: si tratta di attività che creano tanta occupazione – tante cose da fare – quanta non ne è stata mai promossa negli anni di maggior sviluppo. E che promuovono tanti investimenti, tanto reddito, tanto “benessere” quanto nessun altro progetto potrebbe aspirare a produrre.
Vanno resi protagonisti di questi interventi, dal momento della loro concezione e della loro progettazione fino a quelli della realizzazione, del controllo e della gestione – cioè durante tutto il cosiddetto “ciclo di vita” del progetto – i lavoratori che ne saranno coinvolti; a partire da quelli delle imprese oggi in crisi, a cui soltanto una radicale conversione produttiva e di mercato può garantire una prospettiva.
Basta enunciare questo programma di massima per capire qual è il punto cruciale: o questa conversione si promuove con la convinta partecipazione di chi la dovrà realizzare con il proprio lavoro, assumendone fin da subito il rischio, ancorché ripartito e distribuito sugli sforzi di una comunità solidale più vasta possibile – e di adeguati strumenti di welfare – oppure non resta che proseguire pervicacemente sulla strada di sempre, sprecando risorse crescenti nel sostegno di produzioni e consumi irrevocabilmente destinati a far danno e ad accelerare il declino non solo del tessuto produttivo, ma di un intero assetto sociale, in una competizione senza sbocchi con altre imprese, altri impianti produttivi, altri lavoratori, che si traduce solo in una “guerra tra poveri”. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, a partire dalla tragica vicenda della fabbrica Fiat di Termini Imerese.
L’Italia, non meno della Francia, della Germania, dei paesi scandinavi, ha – ancora per qualche tempo – le risorse scientifiche, tecniche, imprenditoriali, professionali, ma anche un tessuto sociale e produttivo duttile e potenzialmente ricettivo, per promuovere e organizzare a tutti i livelli, partendo dal basso e dalle situazioni di più acuta crisi aziendale e occupazionale, una riconversione del genere. E anche per imporne la realizzazione, ancorché a pezzi e bocconi e attraverso una contesa quotidiana, a chi ci governa: nelle amministrazioni locali, nelle Regioni, a livello nazionale e soprattutto in Europa. Non siamo i soli ad avere questi problemi, e non dobbiamo lasciare soli coloro che li hanno come noi, e che come noi devono o stanno cercando di affrontarli.
Prima di congedare questo elogio di Daniel Cohn-Bendit e di lasciare a lui la parola, non posso esimermi dall’indicare i punti di profondo dissenso che mi separano da alcune delle sue tesi, e ancor di più da quelle di Adam Michnik, suo interlocutore nell’ultimo testo di questo libro. Comprendo, ma non posso condividere, le ragioni che spingono Michnik ad abbracciare, pressoché in toto, la politica con cui Bush ha portato gli Stati uniti e l’intero pianeta sull’orlo di un baratro e forse anche oltre. Ma ritengo che su quella strada il destino dell’Europa e le prospettive che essa può ancora aprire, siano irrimediabilmente segnate. Le mie divergenze riguardano la valutazione del quadro internazionale in cui si colloca la prospettiva di un’Europa più ecologica, più equa e politicamente più efficace.
Accetto la prospettiva di un esercito europeo se questo significa una riduzione della spesa militare sostenuta dai singoli stati membri, da un lato, e una politica estera unitaria, in grado di intervenire efficacemente anche in situazioni che possono richiedere l’uso della forza. A condizione che si instaurino forme e strumenti di controllo democratico di questa politica; strumenti che oggi non esistono né a livello europeo né nei singoli Stati membri.
Dissento però radicalmente dalle valutazioni, pur tra loro spesso divergenti, che Cohn-Bendit, in parte e Michnik in toto, danno dei principali conflitti che attraversano il nostro tempo. Ritengo e sostengo che non solo le due guerre in Iraq, ma anche quella in Afganistan non abbiano avuto e continuino a no avere alcuna legittimazione; ma che quella in Afganistan, come la seconda guerra in Iraq siano state invece preparate ben prima dell’attentato dell’11 settembre del 2001 alle torri gemelle di New York; e che entrambe abbiano avuto fin da subito il carattere di guerre di conquista territoriale, sotto forma di tentativi di insediare governi “amici”, prioritariamente rivolti al controllo di due aree nevralgiche dello scacchiere internazionale e soprattutto delle riserve petrolifere dell’Iraq e delle vie di trasferimento del petrolio e del gas caucasico verso i mercati dell’Estremo oriente. Sfumata la prospettiva della conquista dell’Afganistan per interposto governo quella guerra ormai si trascina da nove anni senza una vera strategia e, soprattutto, senza un vero obiettivo, con un carico di dolore, di umiliazioni e di morte per la popolazione civile, che cresce di giorno in giorno.
Del pari ritengo e sostengo che la guerra del Kosovo – o “per” il Kosovo – non trovasse assolutamente una giustificazione nella pur brutale repressione delle comunità musulmane da parte del governo e della comunità serba locale e sia stata invece il risultato di una prova di forza – stravinta dal governo degli Stati Uniti – nei confronti dell’Europa, nel delicato momento in cui erano in discussione sia il destino e il futuro della Nato che il ruolo e il peso del nascente euro. Ritengo e sostengo che tutte queste partite, giocate e perse dall’Europa, prima alla conferenza di Rambouillet in cui è stata decisa la guerra del Kosovo – e ancor prima in Bosnia, delegando ogni responsabilità alla Nato – e poi in sede ONU, accodandosi alle decisioni unilaterali degli Stati Uniti su Afganistan e Iraq, abbiano pesato e pesino ancor oggi gravemente sul processo di integrazione europea e sulla possibilità di affidare alle istituzioni dell’Unione il governo di processi come la conversione ecologica in cui ci sentiamo impegnati.
Dissento infine dall’equiparazione tra nazismo e terrorismo islamista, non perché penso che quest’ultimo sia cosa “meno grave” – in questo campo non esistono sistemi di misurazione accettabili – ma perché l’abuso nel connotare come nazisti tutti i comportamenti che rappresentano una violazione dei diritti più elementari e una grave minaccia per l’integrità di intere popolazioni – e di questi comportamenti ce ne sono molti, e da tutte le parti: basta pensare che i civili ammazzati dalle truppe della Nato in Afganistan sono molte volte superiori alle vittime delle torri gemelle – offusca il giudizio storico sul nazismo e lo riduce a un semplice espediente retorico della propaganda politica.
Non dico queste cose per recriminare ma per sostenere e rivendicare il ruolo preventivo che la lotta per la pace deve assumere, soprattutto quando riguarda i compiti di istituzioni con responsabilità di governo, come quelle che dovrebbero dirigere l’Europa che vogliamo. Tutte quelle guerre potevano e dovevano essere evitate ostacolando il sostegno irresponsabile che il Governo degli Stati Uniti aveva dato a suo tempo, e per mere ragioni di potenza, alle organizzazioni islamiste operanti in Afganistan da cui si sarebbe generata in seguito la rete internazionale che ha seminato il terrore in tutto il mondo, dall’Indonesia al Caucaso, dall’Algeria agli Stati Uniti; o il sostegno a suo tempo offerto al regime sanguinario di Saddam Hussein in funzione di contenimento dell’Iran (ed è peraltro alla seconda guerra in Iraq che dobbiamo il trionfo elettorale di Ahmadinejad e il soffocamento delle forze democratiche in Iran); o il sostegno che alcune potenze europee – tra cui anche il Vaticano, ancorché non disponga nemmeno di una divisione, come aveva sentenziato a suo tempo Stalin – avevano scelto di dare alla disgregazione dello stato jugoslavo, senza predisporre le condizioni per una sua pacifica ricomposizione in una pluralità di entità capaci ancora di cooperare.
Insomma l’Europa che noi vogliamo, socialmente più equa ed ecologista in campo produttivo e ambientale, non potrà farsi strada se non in un pianeta meno esposto e meno sottoposto alle guerre. E le guerre è meglio prevenirle con la politica che combatterle con le armi.
In questo libretto, che raccoglie alcuni dei suoi più recenti interventi legati al lancio della lista Europe Écologie, come in tutta la sua ormai lunga biografia politica e culturale – a partire dalla sua partecipazione al gruppo 22 marzo, che era stato il fattore di innesco del maggio francese più di 40 anni fa, e passando per la costituzione del gruppo francofortese Revoltionär Kampf e poi alla promozione del partito dei Verdi della Repubblica federale tedesca – Daniel Cohn-Bendit unisce passione, intelligenza e impegno. E, come conseguenza non automatica, ma certamente legata all’esplicitarsi di queste doti, ci fornisce la spiegazione del successo di questa sua ultima iniziativa. Successo che è un obiettivo a cui troppi di noi in Italia sembrano essersi abituati a rinunciare in partenza, trascinati molto spesso da una sorta di cupio dissolvi.
Certo questi scritti non contengono la “ricetta” del successo; una ricetta che non esiste; la strada del successo ciascuno la deve cercare e saper trovare nelle condizioni specifiche del proprio agire collettivo. Ma certo questi scritti sono diretti a illustrare più che il Che fare? – titolo, dal tono esplicitamente ironico, di un altro recente libro di Cohn-Bendit – il Come fare? Cioè come disporsi in un atteggiamento non settario, di apertura nei confronti delle sfide della nostra epoca, avendo il coraggio di misurarsi con i suoi problemi più generali e globali. Problemi che per Cohn-Bendit trovano la loro silloge nel progetto di una nuova Europa: un termine che non a caso ha voluto affiancare a quello di ecologia, che del progetto connota orientamento e indirizzi.
Il Come fare? rimanda innanzitutto alla scelta di “saltare” le mediazioni di partiti e associazioni consolidate e soprattutto quelle dei loro vertici, prigionieri di una pervicace volontà di conservare, se non il proprio “potere” – a volte tanto piccolo da risultare inconsistente – una vera o presunta, ma comunque paralizzante, “ragion d’essere” delle rispettive organizzazioni. Cohn-Bendit punta invece – e lo valorizza – sul contributo effettivo, in termini di analisi, di elaborazione e di proposta, che possono offrire singole personalità, esperienze di base o organismi impegnati nel confronto serrato con i problemi del presente, indipendentemente dal loro “posizionamento” rispetto agli schieramenti politici.
Ma la chiave del successo è senz’altro la capacità di cogliere – che è un “portare alla luce” attraverso un agire che richiede, appunto, passione, intelligenza e impegno – le potenzialità offerte dalla riconversione di quell’assetto produttivo e sociale che ha retto, e portato sull’orlo della catastrofe, non solo economica, ma soprattutto ambientale, lo sviluppo produttivo e il processo di globalizzazione degli ultimi decenni. Una conversione che è al tempo stesso una necessità improcrastinabile e una straordinaria opportunità per instaurare delle relazioni diverse tanto tra l’umanità e il suo ambiente, quanto tra i membri di una stessa comunità, e tra i popoli e i paesi della comunità internazionale.
E’ una riconversione che riguarda tanto i nostri stili di vita, i nostri modelli di consumo, che devono inevitabilmente fare spazio ad aspirazioni e opportunità di chi finora ne è stato escluso, quanto la struttura produttiva e il tessuto industriale che quel modello di consumo hanno promosso, alimentato e imposto, anche a costo di infliggere danni crescenti all’ambiente, all’equità, alla convivialità. Una trasformazione, insomma, che risponda al senso che Alex Langer aveva voluto dare all’espressione “conversione ecologica”, in modo da abbracciare e rendere inscindibili tanto un cambiamento spirituale, interiore, del nostro atteggiamento verso il mondo, l’ambiente, gli altri, improntato a una maggiore sobrietà, a una più forte solidarietà, a una riscoperta della delicatezza, quanto una corposa trasformazione materiale delle strutture sociali e produttive in cui siamo inseriti, indirizzandole a un minore dispendio di risorse, a una accresciuta efficienza, a una maggiore equità.
Niente illustra meglio questo assunto della parabola storica della merce “automobile”, su cui Cohn-Bendit richiama l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine di questo libretto. L’industria automobilistica e la motorizzazione di massa hanno attraversato lo sviluppo economico e plasmato il volto – sociale, culturale, produttivo – di un intero secolo; ma oggi, e ormai da tempo, si sono rivelati un sistema e un prodotto non più sostenibili: sia dal punto di vista economico – i mercati occidentali sono ormai saturi e i grandi paesi emergenti non vengono certo a rifornire i loro nuovi parchi automobilistici dalle nostre industrie; caso mai fanno il contrario – sia dal punto di vista ambientale: il consumo di spazio, di materiali, di risorse energetiche, di ambiente, generato dalla motorizzazione di massa è già oggi catastrofico e lo sarà ancor più drammaticamente se procederà secondo le tabelle di marcia la motorizzazione del resto del pianeta o di una parte consistente della sua popolazione.
Eppure i governi di tutto il mondo industrializzato si affannano a sostenere con gli incentivi più svariati l’industria automobilistica, che, dopo le banche, è stata sicuramente la principale e quasi esclusiva beneficiaria delle risorse messe in campo per contenere gli effetti della crisi e per fornire degli “stimoli” all’economia. A scapito del trasporto pubblico, cioè condiviso, di massa o flessibile; delle fonti energetiche rinnovabili; delle misure di efficienza energetica; del contenimento e della prevenzione dei dissesti idrogeologici; della ristrutturazione dell’habitat urbano; di un’agricoltura sostenibili e di prossimità: tutte cose che avrebbero potuto – e ovviamente ancora possono – rappresentare una valida alternativa, sia in termini di occupazione che di miglioramento della qualità della vita, agli attuali modelli di produzione e consumo, comunque votati a un irreversibile declino.
Inoltre si tratta in tutti i settori citati, di interventi che allontanerebbero gli effetti più gravi della crisi ambientale e riequilibrerebbero, in termini di consumo di risorse, sia le sperequazioni tra Nord e Sud del pianeta, sia, all’interno dei diversi paesi e, in particolare, di quelli più poveri, le disparità sociali; innanzitutto, le disparità, vistosissime nei paesi più poveri, tra una classe privilegiata, ormai tutta largamente motorizzata – a suon di suv – e una maggioranza a cui sono negate le più elementari forme di mobilità.
L’esempio dell’industria dell’auto è sufficiente per permettere a Cohn-Bendit di prendere posizione nel dibattito sulla “decrescita”: è alle cose concrete che bisogna guardare e non ai loro valori monetari che si esprimono nel PIL. La produzione di prodotti dannosi deve decrescere; quella dei beni e dei servizi che migliorano qualità della vita e ambiente deve svilupparsi. Il bilancio tra questi opposti indirizzi non può certo essere misurato solo né principalmente in termini monetari.
Ma se la comprensione di queste cose è oggi alla portata di tutti, anche se la loro realizzazione è ancora molto lontana dalle scelte politiche delle classi dirigenti, sia di destra che di sinistra, perché mai in Italia non si è riusciti nemmeno a costruire un partito o un’organizzazione verde in grado di confrontarsi seriamente con questi temi? Che cosa ci impedisce di imboccare una strada come quella che ha portato al successo della lista Europe Écologie?
Cohn-Bendit, che conosce la situazione italiana molto bene e parla l’italiano benissimo ci dà la sua risposta: innanzitutto i verdi italiani hanno sempre seguito la strada di accordi di vertice con altre formazioni sia al governo che all’opposizione, invece di cercare l’accordo su programmi costruiti valorizzando esperienze ed elaborazioni indipendenti. Una pratica che ha assimilato i verdi italiani a un costume diffuso tra tutti il ceto politico del paese, tanto nella prima che nella seconda repubblica. Il nostro è un paese dove fare politica significa innanzitutto accaparrare un posto di lavoro ben retribuito, per sé e i propri congiunti, da difendere a qualsiasi costo. In questo modo, invece di “contaminare” – come si usa dire in gergo culturale – le altre forze politiche con saperi, peraltro scarsamente padroneggiati, che hanno comunque il vantaggio di essere “trasversali” sia rispetto alle diverse culture politiche che alle molteplici competenze amministrative e di governo, sono stati i verdi ad essere contaminati – nell’accezione epidemiologica del termine – dai miasmi che emanano dalla palude della politica italiana.
In secondo luogo, gli accordi dei verdi italiani sono stati fatti prevalentemente, o quasi esclusivamente, con altre formazioni politicamente connotate come di “estrema sinistra”; cosa che ha fatto dei verdi un’appendice dei residui, o dei residui dei residui, rilasciati dalla dissoluzione del movimento operaio italiano, invece di qualificarsi come una forza capace di guardare al futuro più e meglio di altri.
Ma la tara maggiore dei verdi italiani è quella di non aver voluto – e forse nemmeno saputo come e perché – mettere in discussione le premesse produttivistiche e “sviluppiste” che accomunano la cultura di sinistra, tanto “marxista” che riformista – o, in entrambi i casi, sedicente tale – al credo e alle pratiche, ieri dirigiste oggi ultraliberiste, e poi forse di nuovo dirigiste, dell’establishment politico, industriale e accademico. Condannandosi così a una subalternità di secondo grado nei confronti delle forze che sono alla guida della devastazione del pianeta.
Naturalmente non possiamo pensare, qui in Italia, di ripercorrere oggi pedissequamente la lunga e non sempre lineare strada che ha portato la passione, l’intelligenza e l’impegno di Daniel Cohn-Bendit e i suoi compagni di lista a conseguire i successi che hanno arriso alla sua più recente iniziativa politica. Accogliere il suo insegnamento comporta piuttosto, per noi, partire, o cercare di ripartire, dal punto a cui lui ci ha accompagnato finora con le sue riflessioni: cioè dal fatto che la sfida planetaria di questo secolo si affronta mettendo al centro dell’analisi, dell’elaborazione, della proposta e dell’impegno di tutti il tema della conversione ecologica dell’assetto produttivo e dei modelli di consumo, nel senso in cui l’aveva a suo tempo prospettata Alex Langer; e facendo leva, come già Alex aveva cercato di insegnarci, sulle potenzialità messe a disposizione dalla nostra appartenenza al comune contesto europeo: Europa e ecologia.
La risposta alla crisi occupazionale non può consistere nel creare o perpetrare comunque occupazione fittizia, come quella in cui si sono specializzate le classi dirigenti del mezzogiorno italiano, ma non solo loro; bensì individuare le cose da fare e gli interventi da mettere in cantiere per salvaguardare l’ambiente e le condizioni di vivibilità di noi tutti: si tratta di attività che creano tanta occupazione – tante cose da fare – quanta non ne è stata mai promossa negli anni di maggior sviluppo. E che promuovono tanti investimenti, tanto reddito, tanto “benessere” quanto nessun altro progetto potrebbe aspirare a produrre.
Vanno resi protagonisti di questi interventi, dal momento della loro concezione e della loro progettazione fino a quelli della realizzazione, del controllo e della gestione – cioè durante tutto il cosiddetto “ciclo di vita” del progetto – i lavoratori che ne saranno coinvolti; a partire da quelli delle imprese oggi in crisi, a cui soltanto una radicale conversione produttiva e di mercato può garantire una prospettiva.
Basta enunciare questo programma di massima per capire qual è il punto cruciale: o questa conversione si promuove con la convinta partecipazione di chi la dovrà realizzare con il proprio lavoro, assumendone fin da subito il rischio, ancorché ripartito e distribuito sugli sforzi di una comunità solidale più vasta possibile – e di adeguati strumenti di welfare – oppure non resta che proseguire pervicacemente sulla strada di sempre, sprecando risorse crescenti nel sostegno di produzioni e consumi irrevocabilmente destinati a far danno e ad accelerare il declino non solo del tessuto produttivo, ma di un intero assetto sociale, in una competizione senza sbocchi con altre imprese, altri impianti produttivi, altri lavoratori, che si traduce solo in una “guerra tra poveri”. Gli esempi sono sotto gli occhi di tutti, a partire dalla tragica vicenda della fabbrica Fiat di Termini Imerese.
L’Italia, non meno della Francia, della Germania, dei paesi scandinavi, ha – ancora per qualche tempo – le risorse scientifiche, tecniche, imprenditoriali, professionali, ma anche un tessuto sociale e produttivo duttile e potenzialmente ricettivo, per promuovere e organizzare a tutti i livelli, partendo dal basso e dalle situazioni di più acuta crisi aziendale e occupazionale, una riconversione del genere. E anche per imporne la realizzazione, ancorché a pezzi e bocconi e attraverso una contesa quotidiana, a chi ci governa: nelle amministrazioni locali, nelle Regioni, a livello nazionale e soprattutto in Europa. Non siamo i soli ad avere questi problemi, e non dobbiamo lasciare soli coloro che li hanno come noi, e che come noi devono o stanno cercando di affrontarli.
Prima di congedare questo elogio di Daniel Cohn-Bendit e di lasciare a lui la parola, non posso esimermi dall’indicare i punti di profondo dissenso che mi separano da alcune delle sue tesi, e ancor di più da quelle di Adam Michnik, suo interlocutore nell’ultimo testo di questo libro. Comprendo, ma non posso condividere, le ragioni che spingono Michnik ad abbracciare, pressoché in toto, la politica con cui Bush ha portato gli Stati uniti e l’intero pianeta sull’orlo di un baratro e forse anche oltre. Ma ritengo che su quella strada il destino dell’Europa e le prospettive che essa può ancora aprire, siano irrimediabilmente segnate. Le mie divergenze riguardano la valutazione del quadro internazionale in cui si colloca la prospettiva di un’Europa più ecologica, più equa e politicamente più efficace.
Accetto la prospettiva di un esercito europeo se questo significa una riduzione della spesa militare sostenuta dai singoli stati membri, da un lato, e una politica estera unitaria, in grado di intervenire efficacemente anche in situazioni che possono richiedere l’uso della forza. A condizione che si instaurino forme e strumenti di controllo democratico di questa politica; strumenti che oggi non esistono né a livello europeo né nei singoli Stati membri.
Dissento però radicalmente dalle valutazioni, pur tra loro spesso divergenti, che Cohn-Bendit, in parte e Michnik in toto, danno dei principali conflitti che attraversano il nostro tempo. Ritengo e sostengo che non solo le due guerre in Iraq, ma anche quella in Afganistan non abbiano avuto e continuino a no avere alcuna legittimazione; ma che quella in Afganistan, come la seconda guerra in Iraq siano state invece preparate ben prima dell’attentato dell’11 settembre del 2001 alle torri gemelle di New York; e che entrambe abbiano avuto fin da subito il carattere di guerre di conquista territoriale, sotto forma di tentativi di insediare governi “amici”, prioritariamente rivolti al controllo di due aree nevralgiche dello scacchiere internazionale e soprattutto delle riserve petrolifere dell’Iraq e delle vie di trasferimento del petrolio e del gas caucasico verso i mercati dell’Estremo oriente. Sfumata la prospettiva della conquista dell’Afganistan per interposto governo quella guerra ormai si trascina da nove anni senza una vera strategia e, soprattutto, senza un vero obiettivo, con un carico di dolore, di umiliazioni e di morte per la popolazione civile, che cresce di giorno in giorno.
Del pari ritengo e sostengo che la guerra del Kosovo – o “per” il Kosovo – non trovasse assolutamente una giustificazione nella pur brutale repressione delle comunità musulmane da parte del governo e della comunità serba locale e sia stata invece il risultato di una prova di forza – stravinta dal governo degli Stati Uniti – nei confronti dell’Europa, nel delicato momento in cui erano in discussione sia il destino e il futuro della Nato che il ruolo e il peso del nascente euro. Ritengo e sostengo che tutte queste partite, giocate e perse dall’Europa, prima alla conferenza di Rambouillet in cui è stata decisa la guerra del Kosovo – e ancor prima in Bosnia, delegando ogni responsabilità alla Nato – e poi in sede ONU, accodandosi alle decisioni unilaterali degli Stati Uniti su Afganistan e Iraq, abbiano pesato e pesino ancor oggi gravemente sul processo di integrazione europea e sulla possibilità di affidare alle istituzioni dell’Unione il governo di processi come la conversione ecologica in cui ci sentiamo impegnati.
Dissento infine dall’equiparazione tra nazismo e terrorismo islamista, non perché penso che quest’ultimo sia cosa “meno grave” – in questo campo non esistono sistemi di misurazione accettabili – ma perché l’abuso nel connotare come nazisti tutti i comportamenti che rappresentano una violazione dei diritti più elementari e una grave minaccia per l’integrità di intere popolazioni – e di questi comportamenti ce ne sono molti, e da tutte le parti: basta pensare che i civili ammazzati dalle truppe della Nato in Afganistan sono molte volte superiori alle vittime delle torri gemelle – offusca il giudizio storico sul nazismo e lo riduce a un semplice espediente retorico della propaganda politica.
Non dico queste cose per recriminare ma per sostenere e rivendicare il ruolo preventivo che la lotta per la pace deve assumere, soprattutto quando riguarda i compiti di istituzioni con responsabilità di governo, come quelle che dovrebbero dirigere l’Europa che vogliamo. Tutte quelle guerre potevano e dovevano essere evitate ostacolando il sostegno irresponsabile che il Governo degli Stati Uniti aveva dato a suo tempo, e per mere ragioni di potenza, alle organizzazioni islamiste operanti in Afganistan da cui si sarebbe generata in seguito la rete internazionale che ha seminato il terrore in tutto il mondo, dall’Indonesia al Caucaso, dall’Algeria agli Stati Uniti; o il sostegno a suo tempo offerto al regime sanguinario di Saddam Hussein in funzione di contenimento dell’Iran (ed è peraltro alla seconda guerra in Iraq che dobbiamo il trionfo elettorale di Ahmadinejad e il soffocamento delle forze democratiche in Iran); o il sostegno che alcune potenze europee – tra cui anche il Vaticano, ancorché non disponga nemmeno di una divisione, come aveva sentenziato a suo tempo Stalin – avevano scelto di dare alla disgregazione dello stato jugoslavo, senza predisporre le condizioni per una sua pacifica ricomposizione in una pluralità di entità capaci ancora di cooperare.
Insomma l’Europa che noi vogliamo, socialmente più equa ed ecologista in campo produttivo e ambientale, non potrà farsi strada se non in un pianeta meno esposto e meno sottoposto alle guerre. E le guerre è meglio prevenirle con la politica che combatterle con le armi.