Relazione tenuta il 27.9.23 al convegno sulle migrazionini climatiche tenutosi al Museo della scienza e della tecnica di Milano
L’orizzonte teorico e pratico entro il quale collocare sia le analisi e le prospettive della nostra epoca che il nostro agire è dato dalla crisi climatica e ambientale. Non la si può eludere né mettere in secondo piano, pena il ritrovarsi a dover fare i conti con contesti che non si padroneggiano più e in cui nemmeno ci si riconosce. Le prime e principali vittime della crisi climatica e ambientale sono i poveri e gli esclusi in tutti i paesi del mondo e in tutti gli ambiti: ciò che rende di fatto la rigenerazione della Terra condizione ineludibile del loro riscatto, di una maggiore giustizia sociale. E viceversa: sono loro che hanno un interesse prioritario a invertire rotta: papa Francesco, nell’enciclica Laudato sì, lo mette in evidenza fin dai primi paragrafi.
Per questo “fare politica oggi” richiede una continua opera di traduzione delle misure per far fronte alla crisi climatica e ambientale in termini che rispondano ai bisogni concreti delle persone e della loro condizione; ma anche traduzione del vasto arco di obiettivi su cui si sono tradizionalmente concentrate le teorie e le prassi che miravano alla trasformazione della società in pratiche che concorrano a far fronte tanto alle cause che alle conseguenze della crisi climatica e ambientale. Quest’opera di traduzione è l’unica cultura all’altezza dei tempi: una cultura che richiede a tutti, e in termini ultimativi, un profondo ripensamento del rapporto che lega gli esseri umani al resto della vita sulla Terra: premessa ineludibile per l’uscita dall’antropocene, che certo è “capitalocene”, ma che è anche qualcosa, anzi molto, di più.
La crisi climatica, ambientale e sociale è destinata ad aggravarsi. Le emissioni climalteranti continueranno e supereranno il budget disponibile per fermarsi a +1,5 °C: nessun governo del mondo sta rispettando gli impegni, peraltro insufficienti, assunti ai vertici di Parigi (2015) e di Glasgow (2022) e la Terra continuerà comunque a riscaldarsi per anni anche se le emissioni climalteranti cessassero domani; il che, ovviamente non può succedere, perché, anche volendo, la costruzione degli impianti per la generazione di energia rinnovabile richiede tempo, ma soprattutto perché la necessità di lasciare gli idrocarburi sotto terra non è ancora entrata nella testa della maggior parte della gente, e soprattutto in quella di coloro che con i fossili fanno profitti o pensano che abbandonarli minerebbe il loro potere.
Ma a generare la crisi climatica non ci sono solo le emissioni climalteranti; la deforestazione e l’agricoltura industriale che insterilisce il suolo riducono fino ad azzerarlo l’assorbimento del carbonio. Anche il riscaldamento dei mari e degli oceani riduce la loro capacità di assorbire carbonio. Calotte polari e ghiacciai continueranno dunque a sciogliersi, il livello degli oceani ad alzarsi sommergendo milioni di chilometri quadrati di terre, i fiumi a non ricevere più acqua a sufficienza e il permafrost a emettere metano nell’atmosfera, innescando un feed-back che si autoalimenta. Gli eventi estremi – uragani, alluvioni, grandinate, ondate di caldo, siccità e incendi – sono destinati a moltiplicarsi (anche se venissero arrestati tutti i piromani). E prima che tutti i governi, le imprese, le città, i produttori e i consumatori del mondo siano costretti – dalla violenza degli eventi avversi più che da accordi a livello internazionale, nazionale e locale – a rinunciare a far uso degli idrocarburi sepolti in quella cassaforte che per loro è la Terra, questa avrà avuto tutto il tempo di cambiare i propri connotati. Sono già cambiate, e continueranno a cambiare, le correnti sia dell’atmosfera che degli oceani e con esse il “tempo”, quello locale, sul cui andamento siamo abituati a organizzare la nostra vita quotidiana. Cambierà anche quella, volenti o nolenti.
Le comunità, grandi o piccole, che sapranno attrezzarsi per adattarsi a condizioni di vita sempre più ostiche – con un sistema di vita più sobrio, ma anche più ricco di relazioni e di esperienze – faranno da apripista a quelle che, bene o male, dovranno seguirle pena la loro scomparsa.
L’assunzione di queste esperienze in programmi più generali, di respiro regionale, nazionale o sovranazionale, potrà avvenire solo sotto la pressione delle comunità che avranno già imboccato quella strada e che sapranno tradurla in piattaforme rivendicative e programmatiche.
L’aggravamento della crisi climatica e ambientale e delle sue conseguenze moltiplicherà occasioni per cambiare rotta, che potranno avere un esito positivo e permanente solo se accompagnate e guidate dalla consapevolezza del valore strategico dell’”amicizia sociale”, della trasformazione di un gruppo di mutuo aiuto provvisorio e “monotematico” in una comunità stabile e solidale.
La manifestazione ad oggi più evidente della crisi climatica e ambientale, quella che mette maggiormente alla prova governi, partiti, cultura e associazionismo, evidenziandone tutta l’inadeguatezza, è costituita dalle migrazioni: per ora di consistenza quasi insignificante rispetto a quello che succederà in futuro, ma destinate comunque a scombussolare dalle fondamenta gli assetti sociali vigenti.
Sta già succedendo: sia la vita politica istituzionale che l’opinione pubblica, tanto in Europa che negli Stati Uniti, ma ormai anche in molti altri paesi coinvolti come meta o come luoghi di transito dei migranti, sono ormai dominate dalla contrapposizione “pro o contro” l’accoglienza, “pro o contro” i respingimenti; una contrapposizione che fa aggio su tutte le altre questioni con cui continua a intrecciarsi in vario modo, ma con una crescente preminenza e recrudescenza delle posizioni contrarie ai migranti.
Si sono dimostrate tanto fallimentari quanto ciniche e prive di prospettive tutte le soluzioni invocate a piena voce da coloro – governi, partiti, opinione pubblica, studiosi, opinion leader – che si schierano apertamente contro i migranti: chiudere i porti, sospendere i salvataggi, creare difficoltà e rallentamenti a chi vi si dedica, respingere con la violenza fisica chi cerca di varcare i confini di terra, costruire muri e barriere, spostarle all’indietro lungo il cammino percorso dai migranti, coinvolgere i governi dei paesi di transito perché se ne facciano carico, trasformare l’accoglienza di coloro che “ce l’hanno fatta” in un inferno, costringendoli a una forzata inattività per renderli invisi alla popolazione che lavora; e per dissuadere altri dal tentare la stessa strada. Il tutto mascherato da una pretesa quanto vana “lotta agli scafisti” inseguendoli per tutto “il globo terracqueo”; una lotta che in realtà non fa che riprodurre le condizioni più favorevoli per la loro attività.
Ma ad esse non si è riusciti a contrapporre che una molteplicità di lodevoli iniziative umanitarie: dal salvataggio in mare alla tutela legale di salvati e salvatori, dal sostegno ai campi dislocati lungo i “cammini della speranza” – in Grecia, in Bosnia, in Slovena – agli sforzi per rendere meno pesante la sosta infinita nei centri di cosiddetta accoglienza, dalle iniziative per offrire comunque un’opportunità di inclusione o di inserimento lavorativo alle campagne contro il razzismo insito in tutte le politiche di respingimento, sempre connotate, anche se raramente espresso in modo aperto, dall’intento razzista di sventare la temuta “sostituzione etnica”.
Un intento che sta alla radice anche delle politiche tese a sostenere o incrementare le nascite, ispirate non dalla volontà di creare le condizioni perché ciascuno possa liberamente decidere se mettere al mondo dei figli, e quanti, ma dall’illusione che più figli possano contribuire non alla potenza militare del paese, come ai tempi del duce, ma a evitare che la riduzione della popolazione nazionale renda indispensabile ricorrere all’apporto degli immigrati.
E’ però mancata finora la capacità di confrontarsi con la dimensione complessiva del fenomeno, con la sua rilevanza politica generale, con l’evidenza della sua continua crescita, che non è destinata a fermarsi.
Secondo Gaia Vince (Il secolo nomade, Bollati Boringhieri, 2023) entro la fine del secolo la metà più popolata del pianeta sarà inabitabile per le temperature troppo elevate o perché sommersa dal mare o tormentata da guerre che hanno nella crisi ambientale le loro radici profonde. Ci saranno decine o centinaia di milioni, forse miliardi di profughi e migranti che cercheranno scampo nell’emisfero del pianeta ancora vivibile, quello settentrionale, reso forse più fertile da un clima più mite per effetto del riscaldamento globale. Ma Gaia Vince non fa i conti con le fobie antimigranti attizzate ormai in tutti i paesi di immigrazione: dalla Svezia alla Tunisia, dal Myanmar all’Australia, dagli Stati uniti al Giappone; per lei le migrazioni sono positive sia per chi le intraprende che per chi dovrebbe accoglierle. D’altronde si tratterebbe di vicende provvisorie, perché sul lungo periodo la geoingegneria riuscirà a riportare il pianeta nelle condizioni iniziali…
Ma quanti di noi li fanno, quei conti? Fin dal 2004 il Pentagono aveva scritto che i paesi “sviluppati” dovevano prepararsi a una guerra senza quartiere contro ondate di profughi che avrebbero cercato di sfondare i loro confini a causa della crisi climatica. Quelli che non lo avessero fatto sarebbero stati condannati a soccombere.
Ecco da dove nasce il progetto, mai esplicitamente enunciato, di “Fortezza Europa”: dalla convinzione che in questo mondo non c’è o non ci sarà più posto per tutti. Quello che in realtà viene prospettato dai razzisti di “Fortezza Europa” e di molte altre fortezze – senza però dirlo; nascondendosi, al contrario, dietro continue professioni di negazionismo climatico – è lo sterminio, per abbandono o per aperto contrasto, di più della metà della popolazione mondiale: miliardi di esseri umani. In Arabia Saudita ormai si spara, con kalashnikov e mortai, contro le carovane di migranti che cercano di sfondarne i confini; e questo non impedisce di onorarne governo e assetto sociale per la loro “magnificenza”: pecunia non olet.
Le campagne e le misure contro i profughi e i migranti di oggi servono ad abituarci poco per volta a questa strage; a coltivare la nostra indifferenza. Va ricordato che nel periodo in cui, a detta di molti storici, il fascismo italiano aveva goduto del livello più alto di consenso, lo Stato italiano era impegnato nello sterminio di intere popolazioni in Libia, in Etiopia e in Slovenia.
“Ma non possiamo accogliere nel nostro paese, e nemmeno in Europa, tutta l’Africa, che al 2050 avrà due miliardi di abitanti!” E’ quello che ci viene ripetuto anche dai meglio intenzionati, senza mai tener conto di ciò che questa affermazione comporta se ci si ferma lì. Ma le conseguenze ci sono, eccome! I profughi respinti, ma anche quelli “dissuasi” dal mettersi in viaggio dalla ferocia con cui vengono trattati quelli di loro che l’hanno fatto, finiscono prima o dopo per alimentare sia le bande di predoni, non solo jijadisti, che il sostegno a governi corrotti e voraci, dediti alla devastazione dei propri territori e di quelli vicini; moltiplicando così sia la necessità di fuggire che il degrado dei territori e delle comunità ancora esistenti.
E poi, che ne sarà delle decine o centinaia di migliaia, e poi milioni di profughi “accolti” – perché salvati dal mare o passati, dopo molti tentativi, attraverso i fili spinati delle molte fortezze che proliferano, in Europa come altrove – ma accatastati e poi abbandonati da un sistema costruito per rendere ostico (così Theresa May) l’ambiente per gli immigrati? E che ne sarà degli oltre 40 milioni di immigrati arrivati in Europa negli ultimi decenni, in parte naturalizzati e in parte no, ma tutti tenuti ai margini della società, e che sempre più si riconoscono per sentimento, cultura e religione, quando non per legami familiari diretti, nei loro connazionali in transito: quelli che l’Europa sta trattando di fronte al loro sguardo come un peso morto, un “carico residuo”, un nemico da combattere?
Saranno anch’essi da destinare, prima o poi, a una vera e propria segregazione se non allo sterminio, perché sono una minaccia per l’integrità della nazione? E può una “Fortezza” fondata sul respingimento dello straniero, considerato nemico e invasore, e sulla discriminazione del vicino di casa, trattato come una minaccia permanente, essere amichevole con i propri concittadini? O non è questa la premessa di un generale irreggimentamento di tutti in un sistema dispotico e della persecuzione di ogni dissenso?
Ma c’è un’alternativa? Dobbiamo cercarla. Quasi nessuno si è trovato di fronte a un dilemma simile prima di ora, ma non lo si affronta certo ignorandolo. C’è molta ipocrisia anche nel comportamento di tante persone e organizzazioni che criticano, giustamente, le misure di respingimento proposte, promosse e messe inutilmente in atto dai partiti, dai governi e dalle forze anti migranti, senza misurarsi però con le dimensioni presenti e future delle migrazioni, che non sono una vicenda temporanea, destinata a rientrare, rimanendo tutto sommato un episodio; bensì una tendenza destinata a crescere fino a rendere impraticabili le soluzioni o le proposte con cui finora si è cercato, nel bene o nel male, di affrontarle.
Finché profughi e migranti verranno trattati come un peso da scaricarsi a vicenda o, al massimo, da ripartire come pacchi o “merce avariata” tra Stati e tra Regioni, senza tener conto non solo delle loro preferenze – per lo più determinate dalla presenza di parenti, amici, connazionali già insediati, ma anche dalle opportunità di lavoro e dal trattamento vigente – ma anche del valore delle loro esistenze, della loro storia, della loro cultura, della loro umanità, non se ne verrà a capo. L’obiettivo sarà per tutti “averne”, prendere in carico, il minor numero possibile.
Un piano alternativo a questo approccio deve potersi basare su esempi ed esperienze, positive e replicabili, di inclusione, di inserimento, di sviluppo umano, di convivenza positiva, da riproporre come modello, con la dovuta contestualizzazione, ovunque. E queste esperienze si possono trovare soprattutto se non esclusivamente in piccole comunità, sia urbane che rurali, perché accoglienza, inclusione, inserimento lavorativo, ma, soprattutto, valorizzazione del contributo che ogni migrante può apportare con la cultura della sua comunità di provenienza, le sofferenze patite, la sua conoscenza del lato peggiore, ma anche di quello migliore, dell’umanità, può avvenire solo là dove i rapporti umani hanno la preminenza sulle “ragioni” dell’economia e della burocrazia. Sulla valorizzazione e generalizzazione di quelle esperienze occorre esigere un impegno prioritario dai governi locali, nazionali e comunitari, la loro traduzione in piani di intervento e i necessari stanziamenti finanziari.
Di queste esperienze positive, frutto di rare vicende di “accoglienza diffusa”, l’Italia conta molti esempi, a partire dalla Riace di Mimmo Lucano, assurta a modello lodato in tutto il mondo, ma represso e screditato nel più obbrobrioso e vile dei modi. Nessuno ha però cercato in modo serio di farne il paradigma di un programma politico generale per mettere l’Unione europea di fronte non solo alle sue responsabilità, ma anche alle sue opportunità, rivendicando per un programma di accoglienza e inclusione generalizzate un finanziamento almeno pari a quello da destinare alla conversione ecologica del sistema produttivo (quello che ha poi finito per dissipare risorse, tra mille deroghe, in progetti che con la crisi climatica e ambientale non hanno nulla a che fare. Come il Pnrr italiano).
Senza peraltro rendersi conto del fatto che quei due programmi potrebbero in parte coincidere: i finanziamenti veri destinati alla conversione ecologica del sistema produttivo potrebbero venir subordinati e commisurati all’inserimento sociale e lavorativo dei nuovi arrivati, innescando così una corsa ad accaparrarseli per acquisire quei finanziamenti, invece che a disfarsene, per evitare i costi, questi, sì, a fondo perduto, di un’accoglienza che non accoglie.
In considerazione della stretta relazione esistente tra crisi climatica e ambientale e movimenti migratori di massa, due fenomeni destinati a costituire l’orizzonte esistenziale dei prossimi decenni su tutto il pianeta, la questione delle migrazioni – in tutte le loro fasi, dal paese di origine all’accoglienza e all’inserimento dei nuovi arrivati, fino alla costruzione di opportunità di cooperazione con, o di libero ritorno alle, comunità e terre di provenienza – deve essere trattata come elemento fondativo e costitutivo di una Unione Europea ridefinita e ricostruita. Ma, prima ancora, di ogni Comune, grande o piccolo; di ogni Regione e di ogni Paese membro. E questo con la stessa rilevanza che dovrebbe venir attribuita, ma non lo è, alla questione della lotta per il clima e per la salvaguardia della biodiversità.
L’Italia, come la Grecia, la Spagna e il Portogallo, ma prossimamente come molti altri paesi di confine dell’Unione, deve sottrarsi al gioco dello scaricabarile tra i membri dell’Unione a spese dei migranti. Ma lo potrà fare solo facendosi promotrice – insieme agli altri paesi vittime del gioco perverso imposto dal Trattato di Dublino – di una proposta positiva che riguardi tutti gli Stati membri e, in prospettiva, la Nazioni Unite, per prepararsi a far fronte in modo non ostile, e meno che mai bellicoso e stragista, non solo ai flussi migratori dell’oggi, pienamente assorbibili e con ampie potenzialità positive, come dimostra già oggi l’esempio virtuoso del Portogallo, che non punta sulla natalità, ma sull’immigrazione, per far fronte alle conseguenze dell’inevitabile invecchiamento della sua popolazione. Bensì a quelli cento se non mille volte maggiori con cui il pianeta tutto, e per quanto ci riguarda l’Europa, dovrà confrontarsi nei decenni a venire.
Ma occorre anche cercare di rallentare, per poi fermare e invertire, le conseguenze del riscaldamento globale anche su quella metà del pianeta che ne è o ne sarà più colpita. Quelle terre dell’Africa e del Medio Oriente, inaridite dalla crisi climatiche e devastate tanto dallo sfruttamento feroce delle loro risorse che dalle guerre, possono ancora essere risanate, rimboschite, irrigate, coltivate, imbellite – e le loro città ricostruire e rese vivibili – con tanti progetti grandi e piccoli. Tra tutti, per quanto riguarda l’Africa, ma non solo, quello, per metà abbandonato, della grande cintura verde del Sahel; rinforzando o ricostituendo le comunità locali come presidio del risanamento del loro territorio. Ma chi potrebbe farsi promotore di una svolta del genere se non i protagonisti di quel flusso – per ora, e ancora per pochi anni, così limitato – dei migranti che raggiungono l’Europa, se essi venissero accolti, inclusi, formati e arricchiti delle relazioni con le comunità che li ospitano?
Se venisse loro non solo concessa, ma facilitata, la possibilità di costituirsi in comunità nazionali di espatriati, con libere consulte in ogni paese e per ogni nazionalità di origine? Soprattutto se messi in condizione sia di poter tornare volontariamente alle loro terre e comunità di origine – cosa che la maggior parte di loro desidera – con cui mantengono ancora forti legami, senza che venga loro impedito di rientrare quando vogliono nel paese in cui si sono rifugiati; con un movimento pendolare attraverso cui costituire una vera comunità transmediterranea.
E chi può progettare meglio il futuro del proprio paese e lottare di più contro chi lo sta riducendo a un deserto e a un inferno politico se non la comunità degli espatriati che ne sono fuggiti? Certo la guerra, la militarizzazione del mondo e la vendita di armi ai dittatori, come lo sfruttamento senza limiti dei loro paesi, non aiutano. Ma questi sono problemi che riguardano innanzitutto noi.