Riconversione produttiva (tratto da “il manifesto”, 11 agosto 2010)
Lo scorso dicembre, al COP15 di Copenhagen, tutti i governi del mondo si erano trovati d’accordo nel riconoscere la gravità della minaccia climatica che incombe sul pianeta e la necessità di adottare misure drastiche e urgenti per farvi fronte. Ma quanto a trovare un accordo che ripartisse tra i diversi paesi l’onere delle misure da adottare, o anche solo decidere misure unilaterali che indicassero agli altri la strada da seguire, il fallimento è stato totale. Perché?
Ha pesato innanzitutto la collusione con l’industria, o il suo condizionamento; e non solo di quella direttamente legata a estrazione, trasporto, lavorazione e distribuzione degli idrocarburi. Quell’industria è in grado di coinvolgere nelle sue iniziative lobbistiche tutti o quasi gli altri settori portanti dell’economia: finanza, automotive, costruzioni, agroalimentare, chimica, ecc.
Ma ha pesato molto di più sull’establishment sia politico che finanziario e industriale l’assenza di una visione strategica dei processi in corso. Il liberismo, la tesi fantasiosa che il mercato trovi da sé, o al massimo con qualche “aiutino”, il rimedio ai danni che affliggono il pianeta e i suoi abitanti, inchioda i suoi fautori a un eterno presente senza passato né futuro; fermo, in politica, al giorno per giorno; in economia, alle “trimestrali”; nelle consorterie accademiche, alle lotte di potere: rendendo tutti incapaci di un approccio prospettico.
Ma il vero problema è un altro: affrontare i cambiamenti climatici richiede una conversione radicale del sistema produttivo, dell’impiantistica, dei consumi e degli stili di vita intorno a cui si sono consolidate abitudini e aspirazioni della maggior parte della popolazione mondiale. Non si tratta solo di definire obiettivi che cozzano con i miti produttivistici, consumistici e occupazionali dell’oggi (di questo, chi più e chi meno, sono capaci tutti). Il fatto è che una conversione ambientale di produzioni e consumi non può essere gestita con i tradizionali strumenti di governo: in particolare, con quelli messi in campo per far fronte alla crisi in corso: le politiche di bilancio per salvare le banche; gli incentivi al consumo per salvare l’industria dell’auto; le “grandi opere”, nella speranza che rimettano in moto l’economia.
L’economia dei combustibili fossili, quella che ci ha portato alla situazione attuale e che ci sta trascinando verso un disastro irreversibile, è fondata sui grandi impianti: campi petroliferi e miniere, oleodotti, flotte di petroliere e navi carboniere, grandi raffinerie, grandi impianti di generazione, grandi reti di distribuzione dell’elettricità e dei combustibili. Gran parte dell’apparato produttivo mondiale, dall’agroalimentare alle costruzioni, dalla farmaceutica all’auto, è commisurata a queste dimensioni, anche se il modello non è più il grande combinat fordista, ma la rete, che scarica rischi e costi su strutture decentrate, delocalizzate, e spesso evanescenti. Per gestire questi grandi impianti e queste grandi reti ci vogliono grandi società, grandi piramidi aziendali, grandi strutture di supporto tecnico, legale, pubblicitario e lobbistico, grandi risorse finanziarie: tanto grandi che i governi non riescono più a controllarle e hanno delegato le proprie prerogative – persino, in sostanza, quella di “battere moneta”, cioè di decidere quanto denaro deve circolare nel mondo – alla finanza internazionale e alle multinazionali; o a organismi internazionali, dalla Banca mondiale al FMI, dal WTO alla Commissione europea, ancora più esposte dei governi nazionali al lavorio delle lobby.
Per funzionare la green economy – qualsiasi cosa si intenda con questo termine – deve adottare uno schema opposto. Catturare l’energia del sole, del vento, delle onde marine, della biomassa senza devastare il territorio e mettere alla fame gli umani richiede un’impiantistica distribuita, decentrata, articolata sul territorio in base ai carichi da coprire e alla disponibilità delle risorse locali.
E’ vero che gran parte degli investimenti nel fotovoltaico, nell’eolico o nelle biomasse, dalla generazione elettrica con olio di palma ai biocombustibili con mais e canna da zucchero, sono stati fatti da gruppi più o meno grandi e più o meno legali (vedi P3 e Vigorito nell’eolico), deviando dalle loro finalità costitutive gli incentivi destinati alle fonti rinnovabili: in Italia i più generosi del mondo. Ed è vero anche che sono in programma interventi di vastissime proporzioni, come il progetto Desertech, finalizzati a mantenere il controllo degli approvvigionamenti energetici nelle mani di grandi fornitori – esattamente come si tenta di fare con il nucleare, spacciato, a prescindere dai rischi e dai costi astronomici, per energia “verde”. Ma è anche vero che quegli interventi non sono che l’applicazione di una logica vecchia e centralistica a soluzioni nuove e distribuite; e che, anche se realizzati, non saranno mai in grado di supplire ai fabbisogni di una società energivora come quella attuale; né diminuiranno la dipendenza dall’estero e le guerre per garantire gli approvvigionamenti energetici.
Perché il complemento irrinunciabile di una transizione dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili è la promozione dell’efficienza energetica, che richiede interventi ancora più decentrati e articolati caso per caso: l’individuazione e l’eliminazione degli sprechi, la coibentazione degli edifici, l’introduzione di nuove tecnologie nelle apparecchiature domestiche e industriali.
Decentrata e articolata sulle caratteristiche specifiche di ogni territorio dovrà essere anche la mobilità sostenibile: fondata sulla condivisione dei veicoli – sia nel trasporto di massa che in quello personalizzato, a domanda – che dovrà sostituire l’enorme spreco di risorse (di spazio, di suolo, di materiali, di combustibile, di tempo perso negli ingorghi, di occasioni di incontro) comportato dall’attuale sistema fondato sulla motorizzazione individuale di massa.
Costitutivamente decentrati e articolati saranno anche gli altri due pilastri della conversione ecologica: la tutela del suolo e dei suoi assetti idrogeologici e, in primissimo luogo, il recupero della sovranità alimentare in tutti i territori del primo, del secondo, del terzo e del quarto mondo: che vuol dire agricoltura di prossimità, multiculturale e multifunzionale, fondata su una gestione cooperativa di piccole unità produttive scientificamente e tecnicamente aggiornate, in rapporto quanto più diretto con l’industria di trasformazione e i consumatori finali. Lo stesso dovrà accadere, mano a mano che si andranno esaurendo le vene minerarie oggi saccheggiate senza ritegno né preveggenza, quando il ricorso al riciclo di scarti e rifiuti sarà la principale fonte di approvvigionamento di materiali (con tanti saluti per gli inceneritori vecchi e nuovi).
Non si tratta di utopie ma di scelte cui prima o poi (più prima che poi) tutti i governi e le industrie del mondo dovranno forzatamente adeguarsi. Di comune accordo o, più probabilmente, in ordine sparso: con un aumento esponenziale del caos e dei conflitti. Chi ci arriva prima starà meglio. Ma chi può guidare questa transizione?
Con poche e parziali eccezioni, un intero ceto politico – quello che non parla mai di questi problemi; e se ne parla non ne sa comunque niente; e se ne sa qualcosa non fa niente per adeguarsi – è destinato a soccombere e sparire di fronte alle esigenze del secolo. Ma sta dando prova di inadeguatezza anche gran parte dell’imprenditoria, sia che sia associata o succube dei grandi gruppi finanziari che governano il mondo, sia che sia impregnata di una cultura che non sa guardare al di là delle convenienze immediate (meno tasse e più evasione; meno salario e più disciplina; meno ambiente e più speculazione, ecc.); come se la produttività, che in Italia è da tempo in calo, dipendesse dall’aggancio ai salari e non da investimenti, ricerca, formazione, cioè dalla cultura di un intero paese e, in ultima analisi, dalla capacità di imboccare con convinzione la strada di una vera riconversione ecologica.
Per progettare e guidare un processo del genere ci vuole una classe dirigente nuova, composta da imprenditori innovatori, da amministratori più colti e attenti alla evoluzione dei tempi, da un associazionismo consapevole in grado di valorizzare la grande quantità di saperi diffusi, sia di carattere tecnico che “relazionale”, sia basati sulla consapevolezza generale dei problemi che su conoscenze specifiche del territorio in cui si vive e lavora; quelli che la maggioranza delle imprese non sa più mettere al lavoro. Un’imprenditoria del genere può ancora nascere: sia tra le aziende messe alle strette dalla crisi, sia come espressione organizzata di istanze della società civile; nuovi amministratori pubblici possono diventare interlocutori credibili se quelli inetti verranno messi alle corde, anche a prescindere dai processi elettorali che li selezionano oggi; l’associazionismo e il sindacalismo di base dovranno riorganizzarsi su nuove basi: non per attenuare quella conflittualità verso lo stato di cose presente che è la molla di ogni trasformazione sociale, ma per ampliare il proprio ruolo valorizzando le competenze sia generali che specialistiche a cui possono attingere. Lo comprovano vicende come quelle recenti della Fiat, che mettono all’ordine del giorno non solo la necessità di resistere ai dictat del management, ma anche e soprattutto la capacità di indicare e sviluppare i termini di una riconversione produttiva. Nessuno però sembra chiedersi quanto e per quanto tempo sia sostenibile un programma produttivo come quello della Fiat.
Ma perché nasca una classe dirigente consapevole, articolata e diffusa sul territorio, in grado valorizzarne le risorse naturali, storiche e umane, disposta ad accettare e a trarre vantaggio dagli inevitabili conflitti, è necessario innanzitutto creare delle sedi, aprire degli “spazi pubblici” dove possa svilupparsi un confronto diretto tra le diverse posizioni in gioco.