Risposta a un lettore de “il manifesto”: Il futuro è già qui
Ho letto l’ultimo articolo di Viale sul Manifesto del 25-07-12 e con mio grande dispiacere ho notato che ha riconfermato la sua abitudine a proporre azioni politiche che guardano al lontano futuro e mai al presente (oggi, domani, subito).
Io sono stato, fino a poco tempo fa, un estimatore del pensiero di Viale. Condivido il discorso sull’ambiente e la riconversione ecologica, ma non può ignorare la necessità di dare risposte, ora, su ciò che accade. L’ unione europea e l’euro stanno saltando e la proposta che riformula è quella solita di una costruzione della società futura.
Se non si interviene correttamente subito, con un’azione politica che miri ad affrontare il problema cruciale, per evitare che l’Europa o, almeno l’Italia, non sprofondi nel precipizio, la stessa società futura che propone (e che io condivido), non si potrà realizzare mai.
Non si può separare, come fa, gli obbiettivi a lungo termie con quelli immediati, a breve, medio e lungo termine. Pena la sconfitta su tutti i fronti. Non può liquidare il ritorno alle valute nazionali con due righe.
Addirittura ALBA (il nuovo soggetto politico a cui ho aderito) ha un atteggiamento di sufficienza verso chi la considera una possibile opzione. Ritengo che sia un atteggiamento sbagliatissimo per degli di intellettuali, per giunta di sinistra, che dovrebbero scandagliare e analizzare tutte le possibilità, senza scartarle a priori. Ci sono tanti economisti di sinistra che condividono e/o auspicano questa possibilità e la analizzano nel dettaglio. Sono tutti rimbecilliti?
E poi ci sono tanti modi per uscire dall’Euro, non solo quelli che propone la destra. E ci sono anche soluzioni intermedie (Jacques Sapir – Bisogna uscire dall’Euro?). E poi non è sufficiente, a mio avviso, giustificarlo dicendo che non è più possibile riproporre il Keynesismo. Ci sono tante strade percorribili, ma debbono comunque mirare, ripeto ora, a liberarci dalle catene della finanza internazionale e, quindi, dai vincoli che l’Unione Europea ci pone ( e che saranno sempre più stretti fino a strangolarci). E non ci si può limitare, come fa Viale, a un confronto con il potere della finanza semplicemente ‘imponendo’ una radicale ristrutturazione dei debiti (ma come? E poi? vedi Grecia).
A questo punto chiedo a Viale (e, suo tramite anche ad Alba):
1) Come intendete affrontare la situazione oggi?
2) Se vi ostinate a non proporre un’uscita controllata dall’Euro (quantomeno studiatene l’eventualità e quindi le possibili modalità), cosa proponete perché l’Italia si liberi da subito, dalle grinfie dei mercati finanziari?
Chiedo, al manifesto, nel caso non venisse pubblicato, di far pervenire queste mie riflessioni a Viale. Mi sono impegnato ad acquistare il Manifesto tutti i giorni da un po’ di tempo. Datemi almeno questa soddisfazione.
Grazie.
Valerio (Modena)
La risposta di Guido Viale
IL FUTURO È GIÀ QUI
Fuori o dentro l’euro? Non è una decisione che dipende da noi, qualsiasi cosa si intenda con quel “noi”. Ma è comunque una scelta ineludibile per la costruzione di un programma di governo e, soprattutto, preliminare alla costruzione delle forze necessarie per potersi porre il problema del governo. Nell’assemblea di Alba a Parma è emerso un orientamento generale che ricalca quello di Syriza: dentro l’euro – fin che si può; non dipenderà mai solo da “noi” – rinegoziandone radicalmente le condizioni. Con in più la cautela di non affrontare isolatamente il problema, ma di trattarlo come un tema per costruire un fronte di tutti i paesi sotto scacco e di tutte le organizzazioni che condividono questo approccio. L’esatto opposto della pratica dei “compiti a casa”: che vuol dire competere perché a cadere per primo sia qualcun altro, accelerando così il collasso di tutti. Ma il problema è tutt’altro che chiuso e merita alcune precisazioni.
Un ritorno al passato, cioè alle svalutazioni competitive per riaprire la strada alle esportazioni, è precluso. Il modello mercantilista tedesco è vincente perché gli altri partner europei, dentro e fuori l’eurozona, ne sono le vittime; ma proprio per questo non è replicabile: soprattutto se a mettersi in competizione tra loro a suon di svalutazioni fossero tutte le economie oggi schiacciate dalla supremazia tedesca. Né la congiuntura mondiale offre molto spazio a un’espansione delle esportazioni fuori dai confini europei. E d’altronde, che cosa esportare? Le imprese italiane che hanno prodotti e tecnologie vincenti hanno continuato a farlo con successo. Ma si può pensare che con una svalutazione del 20, o anche del 50 per cento, dovendo pur sempre pagare a prezzi maggiorati gli input produttivi importati, la Fiat possa esportare in Europa un milione di auto, o la Merloni qualche milione di frigoriferi prodotti in Italia, e così via? In molti casi il treno della competitività è stato perso per sempre.
In secondo luogo, un aumento della domanda aggregata prodotta da una politica salariale e da una spesa pubblica meno restrittive, in mancanza di una politica industriale mirata a produzioni “a km0”, rischierebbe di tradursi solo in un peggioramento della bilancia delle partite correnti perché è difficile ormai, per molte produzioni nazionali a basso costo, competere con quelle sfornate dalla fabbrica globale del sudest asiatico. Lo schema keynesiano della domanda aggregata che sostiene l’occupazione funziona in un sistema economico chiuso; ma quello attuale non lo è più da tempo.
In terzo luogo, l’alternativa tra “euro sì” ed “euro no” non è un confronto tra teorie economiche contrapposte, tra una scienza buona e una scienza cattiva, come a volte sembra emergere dai testi dei fautori del ritorno alla lira (per es. nell’e-book di Micromega Oltre l’austerità). L’euro non è nato da una teoria errata, ma da una scelta politica, ancorché non del tutto consapevole per tutti i suoi promotori, tesa a sottrarre agli Stati nazionali, dopo averla sottratta ai governi con l’autonomia delle banche centrali, il controllo su alcune variabili decisive delle politiche economiche: base monetaria, tasso di sconto, cambio. Il tutto in funzione del contenimento delle spinte salariali e degli istituti del welfare. Che poi gran parte di quei poteri siano stati di fatto consegnati alla finanza internazionale era per alcuni un lucido disegno e per altri una conseguenza imprevista da cui non si sa più come sottrarsi. In ogni caso non sarà un ripensamento della teoria economica a riportarci alla situazione quo ante: cioè, non ci sarà una transizione graduale dall’euro alle valute nazionali come c’è stata da queste all’euro: ci si arriverà, caso mai, attraverso un crollo dell’intero edificio europeo provocato, passo dopo passo, dall’inconcludenza dei “vertici” europei che si susseguono da due anni a questa parte.
Il problema è allora quello di prevenire quell’evento, senza illudersi che il risultato, la rifondazione su nuove basi dell’Unione europea, possa realizzarsi senza passare attraverso uno scontro frontale con i poteri della finanza, e non solo con i vincoli (pareggio di bilancio, fiscal compact, ispezioni della troyka, ecc.) che l’Europa ha eretto a loro difesa. Cioè, in termini economici, senza passare attraverso una radicale ristrutturazione di gran parte dei debiti pubblici e privati (cioè di Stati e di banche) e una riforma profonda del credito, del sistema bancario, della moneta per sgonfiare la bolla finanziaria che sovrasta il pianeta. Come? Per l’Italia, che peraltro ha un avanzo primario consistente, sarebbe sufficiente la minaccia delle conseguenze di una moratoria o di un default non negoziato: una cosa che Monti e i suoi sostenitori non faranno mai, preferendo portarci verso il disastro greco a piccoli passi più o meno omeopatici.
Ma in entrambi i casi quello che ci aspetta è un periodo prolungato di grande turbolenza politica e sociale. Che per molti, in Grecia e in Spagna, è già iniziato. E per noi è alle porte. Grande turbolenza e grandi rivolgimenti comportano spostamenti ed emersione di nuove forze sociali e rapide scomposizioni e ricomposizioni di forze politiche; cioè grandi opportunità e tremendi rischi, come insegnano la impressionante ascesa di Syriza e, dal lato opposto, quella del movimento fascista Aurora (e non Alba) Dorata in Grecia. O il successo di Grillo.
Per questo la conversione ecologica non è un programma da rimandare al futuro (il futuro è già qui, anche se molti non se ne sono ancora accorti), ma un orientamento generale che può e deve impegnarci già oggi, se è, come dovrebbe, uno strumento di promozione di un’alternativa reale tanto ai diktat della finanza quanto al vano inseguimento di una “crescita” contabile del PIL; ma soprattutto uno strumento di aggregazione e di organizzazione delle forze necessarie a sostenere questa alternativa. Come continuare la lotta contro la privatizzazione dei servizi pubblici, rivendicandone la gestione come beni comuni, se non si promuovono forme di partecipazione sostanziali alla loro gestione? Per l’efficienza energetica e le fonti rinnovabili, per una gestione delle risorse a rifiuti zero, per un’agricoltura e un’alimentazione ecologiche, per una mobilità sostenibile, per una gestione partecipata del territorio, per un’educazione permanente e aperta a tutti. E come salvaguardare il serbatoio di professionalità, di esperienza, di impiantistica presente in aziende oggi votate alla chiusura se non si cerca di coinvolgere le comunità che ne dipendono in una gestione fondata sulla loro riconversione? E come far fronte alla stretta dei redditi se non si promuovono fin da ora nuove forme di consumo condiviso che offrano uno sbocco concreto alle imprese convertite e riterritorializzate? Sono temi che si può cominciare ad affrontare subito: convocando in ogni territorio delle conferenze di produzione per discuterne.
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