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Soggetto politico nuovo

Inserito da on Dicembre 18, 2013 – 9:27 pmNo Comment

L’urgenza delle scadenze che si moltiplicano e si sovrappongono non può esimerci da una riflessione sul periodo che ci separa dal lancio del nostro manifesto e sulle cose che ci hanno insegnato le pratiche in cui siamo stati impegnati in questo anno e mezzo; anche perché incombono sia la prima verifica del nostro statuto, sia il rinnovo del comitato operativo di Alba.

La prendo da lontano. Ho sottoscritto il manifesto per l’autorevolezza dei sui primi firmatari, la stima che nutro nei confronti del loro lavoro (nella misura in cui lo conosco) e la totale condivisione del suo incipit: “Non c’è più tempo” (che non vuol dire attendersi dei risultati subito – nessuno, credo, lo ha mai pensato – ma non rimandare a domani quello che può essere fatto oggi). Condivido tutte le critiche – politiche, culturali e morali – che il manifesto rivolge all’attuale assetto politico istituzionale del nostro paese e del mondo in generale. Condivido pienamente il principio di fare della invenzione e della pratica di nuove forme di democrazia il filo conduttore per il rinnovamento della politica, della morale e della società. Condivido il rimando all’importanza delle passioni e delle “virtù” e, ovviamente, l’obiettivo, non solo inattuato, ma scarsamente perseguito, di mettere la differenza di genere al centro di una ridefinizione della politica.

Su altri punti della sua formulazione nutrivo fin dall’inizio molte perplessità: alcune le ho manifestate subito, altre me le sono tenute per me, perché non le consideravo dirimenti. Adesso, alla luce di quanto abbiamo sperimentato in quest’anno e mezzo, penso che valga invece la pena sottoporle alla vostra attenzione. Preciso che la mia firma tra quelle dei promotori è stata aggiunta all’ultimo momento e che non ho avuto alcun ruolo né nella stesura né nella promozione del manifesto; cioè che non mi includo tra le firme “autorevoli” di cui sopra.

Alla base del manifesto ritengo ci sia un uso non sempre chiaro e distinto delle espressioni “percorso” (“proponiamo un nuovo percorso in cui i cittadini riescano a riappropriarsi…del potere di contare e di decidere”), “spazio politico” (“dentro questo spazio…si muoverebbe una pluralità di attori politici nuovi”) e “soggetto politico” (“bisogna inventare un soggetto nuovo che sia in grado di esprimersi con forza nella sfera pubblica e di raccogliere questo bisogno di nuova partenza”). A volte queste espressioni sembrano – a me – essere state usate in modo intercambiabile (indicano tutte il “il nuovo inizio”); a volte sembrano invece riproporre la dicotomia novecentesca tra partito (il “soggetto politico nuovo”) e organizzazioni di massa (lo “spazio” e il “percorso”); tra direzione politica e sedi della partecipazione; tra “avanguardia” e “masse”. Perché?

Condivido con Gustavo Zagrebesky – per ragioni sicuramente diverse e forse opposte alle sue – la diffidenza per l’espressione “soggetto politico”, ancorché “nuovo”. Soggetto è un termine complesso e problematico, che ha dietro di sé un ampio – e lungo – retroterra filosofico, che in qualche modo rimanda ai concetti di “sostanziale”, “solido”, “monolitico”. Anche nella sua accezione letterale, che si intreccia con quella filosofica, soggetto è ciò che “sta sotto” – un po’ come “suddito”, “sottoposto”, o “sostrato”: qualcuno o qualcosa che prende forma da un’entità o da un potere superiore. È vero che nell’età moderna soggetto e soggettività hanno subito una torsione radicale del loro significato originario, venendo a indicare autonomia, iniziativa, potere costituente (della realtà stessa, e non solo dell’ordinamento sociale o politico); e che con questo passaggio il cielo era disceso in qualche modo sulla terra; o l’uomo era salito in cielo e si era fatto creatore. Ma da almeno un secolo la critica “destrutturante” della filosofia contemporanea si è adoperata per mostrare, dietro la pretesa di attribuire alla soggettività un potere costituente, la permanenza di quell’originario retroterra semantico “sostanzialista”.

Ora non si può pretendere che il linguaggio politico tenga conto della storia e delle controversie che hanno accompagnato l’evoluzione del significato filosofico di un termine che è ormai di uso quotidiano e assai diffuso. Ma quel retroterra semantico rispunta spesso inconsapevolmente e condiziona pesantemente i termini in cui si svolge il nostro dibattito politico, portandoci a volte dove non vorremmo mai arrivare. E da lì, secondo me, da un linguaggio che veicola idee di cui pensavamo di esserci liberati, che si originano molti dei problemi che abbiamo incontrato.

La prima manifestazione di questo equivoco è la frequente ricomparsa nel nostro dibattito del quesito se Alba sia “il soggetto politico nuovo” oppure soltanto uno degli attori che devono o possono concorrere alla sua formazione. Ai fautori della prima di queste alternative andrebbe ricordato che il nostro intento, così come si è andato configurando nello sforzo di riempire di contenuti la griglia formale definita dal manifesto, è quello di cambiare l’organizzazione e la strutture della società non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo, ivi compresi i rapporti di genere e l’aggressione della specie umana all’ambiente in cui vive. La sproporzione tra la consistenza delle nostre forze e la vastità dei nostri intenti dovrebbe trattenerci dall’idea di costituire un “soggetto politico nuovo” attraverso l’accumulo di progressive adesioni alla nostra organizzazione o al nostro programma. Una pretesa che molto spesso sembra essere all’origine della frustrazione o dell’irritazione di alcuni compagni per il fatto che la nostra presenza non viene adeguatamente rimarcata o i nostri comunicati non vengono presi in considerazione: se il problema fondamentale è far crescere quel “soggetto” che è Alba, è evidente che non stiamo andando nella direzione giusta. Così la sproporzione tra intenti generali e realtà quotidiana del nostro fare rischia di riportare i primi alla misura della seconda: di rinchiuderci cioè in una prospettiva ridotta nello spazio (l’Italia e il confronto con glia altri “soggetti” politici in campo) e nel tempo (il “giorno per giorno”).

Viceversa, i fautori della seconda alternativa – indubbiamente più sensata: il “soggetto politico nuovo” come aggregazione di forze diverse e tra loro indipendenti – sembrano sì attendere “l’avvento” del soggetto politico nuovo da un processo di cui Alba sarà solo uno degli attori, ma l’esito di questo approccio è per molti versi analogo al precedente. Non Alba come “lievito” per contribuire alla crescita delle forze in campo presenti e future, ma la costruzione o la comparsa di un unico soggetto, certamente “plurale”, ma pur sempre unitario: un’entità con molte facce ma un’unica testa: cioè un unico indirizzo e un’unica direzione; pur sempre un monolite. Volenti o nolenti, quel soggetto politico è tendenzialmente sintetico, maschile, unico; destinato a  fagocitare tutti gli altri (aspiranti) soggetti.

Le conseguenze di questo equivoco non hanno tardato a manifestarsi fin dalla nostra seconda assise, quella di Parma, in cui è stato – troppo frettolosamente, secondo me – varato uno statuto di Alba che ne ha pesantemente condizionato i successivi sviluppi: è stata allora scartata un’ipotesi organizzativa che prevedeva adesioni collettive ad Alba (del tipo: “un collettivo – ovviamente a carattere locale o settoriale – che aderisce ad Alba costituisce per ciò stesso un “nodo” dell’organizzazione), per asseverare in modo esclusivo le adesioni individuali (cioè la crescita dell’organizzazione su se stessa intorno al suo nucleo originario). Qual è la differenza?

Nel primo caso Alba sarebbe diventata una rete di collegamento tra collettivi o singoli attivisti – ciascuno dei quali impegnato comunque in una o più organismi, o attività, o iniziative di carattere locale o settoriale – che si sforzano di assumere un punto di vista generale; l’attivismo e la “militanza” dei suoi membri si sarebbero sviluppati prevalentemente all’interno di collettivi che si sarebbe cercato, senza necessariamente riuscirvi, di orientare verso proposte e iniziative di carattere più generale; ma l’iniziativa sarebbe comunque restata saldamente in mano ai collettivi – aderissero o no ad Alba – e il compito della rete – dei singoli compagni o delle organizzazioni che ne fanno parte, ma soprattutto dei suoi organi e dei suoi strumenti di coordinamento – sarebbe stato raccogliere e cercare di generalizzare le proposte e le iniziative che promanano o crescono all’interno di quei collettivi; e non, invece, quello di sovrapporsi ad essi, cercando di coinvolgerli in iniziative decise in base a considerazioni politiche di ordine generale (cioè in base a ciò che ci accomuna agli altri “soggetti politici”, ovvero ai partiti tradizionali, e che ci fa sentire frustrati ogni volta che non riusciamo a far rimarcare la nostra presenza e le nostre differenze).

Nel secondo caso, che è la strada che abbiamo imboccato senza rendercene completamente conto, si ripropone, volenti o nolenti, l’impianto di un “centralismo” più o meno “democratico”. I nodi si configurano sempre più come “sezioni” di partito – e la vita all’interno dei nodi, ne ho esperienza diretta, tende a chiudersi su se stessa – e il comitato operativo finisce per comportarsi come un “comitato centrale” di antica memoria, che per lo più si sforza di coinvolgere i nodi in iniziative che non sono maturate al loro interno, e di “rappresentare” l’organizzazione con la frustrante emissione di comunicati di cui, nel contesto “sovietico” del quadro politico e dell’informazione in cui ci troviamo a operare, quasi nessuno tiene conto. La “forma partito”, per usare un’espressione che non amo, si impossessa così di quel substrato che avrebbe voluto essere “soggetto” in senso costituente.

La manifestazione più evidente, e persino grottesca, di questa dinamica l’abbiamo incontrata con l’esperienza frustrante di cambiare si può. L’intento era buono: promuovere un’aggregazione dal basso di organismi, comitati e singoli che si riconoscevano in un programma comune dai contenuti quasi per tutti scontati e in un progetto a cui molti – molti di più di coloro che hanno partecipato alle nostre assemblee – erano pronti ad aderire, come dimostra anche la delusione provata da tantissime persone che non avevano partecipato a quelle assemblee, ma che contavano sul suo seguito. Ma per motivi di tempo – l’anticipazione di una scadenza a cui guardava comunque già il manifesto; ma anche, forse, un colpevole ritardo della nostra organizzazione – questo progetto si è configurato come un’adesione a un progetto lanciato “dall’alto” (i firmatari dell’appello) senza coinvolgimenti in prima persona di organizzazioni di base. Impossessarsene, snaturarlo ed emarginare Alba, è stato così un esito quasi obbligato. L’equivoco che ci ha portato a quella disfatta è stata probabilmente la fiducia che abbiamo accordato a De Magistris (il cavallo di troia per l’ingresso nel progetto di Ingroia e del suo seguito) e al suo fantomatico “movimento arancione”, per il fatto di aver continuato a considerarlo la prosecuzione dell’iniziativa del febbraio 2012 “Comuni per i beni comuni”, che era un’idea – precedente la stessa costituzione di Alba – di grande respiro, ma subito snaturata dalla gestione più che sciatta, verticistica e, ovviamente, senza seguito, che ne aveva fatto De Magistris.

Di più. Dal giorno del lancio del nostro manifesto sono molte di più le adesioni “autorevoli” che si sono perse per strada di quelle, altrettanto autorevoli, che sono state acquisite. Ma, ancor peggio, sono infinitamente di più le adesioni perse di attivisti impegnati in qualche meandro di una rete di movimenti variegata come mai lo è stata prima d’ora in Italia di quelle che sono state acquisite in questi ambiti. È per me del tutto evidente che sia le “perdite” che le mancate acquisizioni – non tutte, ma in gran parte – sono dovute al fatto che gli iniziali sottoscrittori del manifesto, e molte delle persone che abbiamo incrociato successivamente nel corso della nostra attività, non se la sono sentita di venir rinchiusi nel perimetro di un’organizzazione che si andava configurando sempre più – nonostante le intenzioni contrarie di tutti i suoi membri – come un ennesimo partitino; che oggi è in gran parte l’immagine di sé che Alba proietta all’esterno. In altre parole, abbiamo finito per mettere del buon vino nuovo in una botte molto vecchia.

Che cosa avrebbe potuto diventare Alba se avesse seguito un percorso meno tradizionale? Uno spazio pubblico aperto, certamente contendibile e conteso tra chi pensa di poter coinvolgere il PD – e più in generale, quel che resta della “sinistra europea” – in un percorso di recupero della sovranità popolare e chi invece, come la maggior parte dei sottoscrittori del manifesto, considerava e considera questa prospettiva una mera illusione e volge lo sguardo altrove. Che è un po’ la situazione che si è venuta a produrre con il corteo dello scorso 12 ottobre. Situazione non episodica, perché l’abbiamo già incontrata, in altre forme, nel nostro breve passato (pensiamo solo al quotidiano il manifesto), e torneremo a incrociarla molte volte in futuro, per lo meno fino allo sfascio definitivo di PD e associati. Ma in questa contesa lo spazio di una prospettiva di radicale rinnovamento sarebbe stata molto più forte e meno facilmente emarginabile.

Lo conferma, forse, il fatto che, proprio per le insufficiente aperture di Alba e, soprattutto, per la nostra sostanziale assenza da gran parte delle attività in cui sono impegnate le forze che hanno dato vita alla manifestazione del 19 – non ne faccio ovviamente una colpa a nessuno: si fa quel che si può – siamo stati completamente isolati dalla seconda manifestazione (e anche dallo sciopero del 18). Se un ruolo di “medio periodo” si può individuare per la nostra organizzazione, e proprio per lo spirito che caratterizza il nostro manifesto, è quello di tenere aperto uno spazio che contrasti e attenui la divaricazione tra le due componenti di un fronte che le piazze del 12 e del 19 ottobre hanno messo in evidenza.

Cancellare l’immagine di marginalità in cui ci siamo rinchiusi e sforzarsi di proiettarne una diversa – Alba come rete di attivisti impegnati in organismi territoriali o settoriali che si tengono in contatto per cercare di far maturare, all’interno dei collettivi in cui operano, l’esigenza di iniziative, collegamenti e progetti più generali – è oggi un’impresa in gran parte pregiudicata, ma non impossibile. Richiede però una ridiscussione radicale della nostra collocazione nel panorama sociale e politico nazionale ed europeo e degli strumenti con cui cerchiamo di operare.

Vale la pena a questo punto, però, fare i conti con le nostre forze. Alba non è nato da uno o più insediamenti sociali preesistenti (d’altronde sono sempre meno le organizzazioni che presentano queste caratteristiche: Fiom, sindacati di base, qualche centro sociale e poche altre). E’ nata da una convergenza di visioni intenzionate a impegnarsi in un progetto concreto. Ma è largamente disertata dalle persone con meno di 50 anni, e ancora di più dai giovani. Ma oggi mi pare che non siamo nemmeno in grado di contare le adesioni o di procedere a un vero, ancorché parziale, rinnovo del comitato operativo, se la mole di attività che incombe su di esso continua a seguire la traiettoria imboccata in quest’anno e mezzo di vita. D’altronde non è un segreto che nella maggior parte delle grandi città, da Venezia a Napoli, passando per Milano, Torino Padova e Roma, Alba si è dissolta o sta attraversando momenti veramente critici.

Il secondo rilievo al manifesto che avevo, questo sì, esplicitato fin dall’inizio riguarda un approccio secondo me eccessivamente rigido al tema della democrazia, che peraltro costituisce la griglia che struttura tutto il documento, giustamente vuota di contenuti programmatici, in attesa che a riempirla fossero la pratica politica e il lavoro teorico della nuova formazione. Condivido la grande attenzione che il manifesto dedica alla elaborazione e al rispetto delle regole che dovrebbero presiedere alla discussione e alle decisioni interne. Un’attenzione che si è concretizzata nel forte rilievo attribuito al metodo “party” nella definizione degli indirizzi fondamentali dell’organizzazione. Si tratta però di regole che non sempre hanno potuto essere seguite puntualmente, neanche nelle riunioni in cui sono state formalmente adottate, perché la realtà e le esigenze di un’organizzazione finiscono spesso per prevalere, contro la volontà stessa dei partecipanti, sugli aspetti formali.

Ma la democrazia nei processi partecipativi che coinvolgono non solo la struttura di Alba, ma i movimenti di massa o le manifestazioni molecolari di una loro insorgenza ed ai quali ci siamo impegnati a prendere parte nella misura delle nostre capacità e possibilità, non possono essere sottoposte a regole – “norme e calendarizzazione” per usare i termini del manifesto – altrettanto stringenti, pena il rischio di soffocarli o di ingessarli in “statuti” che li snaturano (ne ho molteplici esperienze dirette).

Nella più parte dei casi la democrazia partecipativa si sviluppa in contesti conflittuali che non lasciano molto spazio a una formalizzazione rigida delle sue regole. In altri casi siamo noi stessi a dover spingere le situazioni in cui operiamo verso contesti conflittuali – e per questo sicuramente meno “regolabili” a priori – perché questa è la strada obbligata di una loro generalizzazione.

Conflitto non significa necessariamente scontro frontale o ricorso alla forza – anche se personalmente non mi sento di escludere a priori nessuna di queste eventualità – perché la “mitezza” a cui si fa riferimento nel manifesto è innanzitutto la strada per scompaginare le file dell’avversario, per promuovere al suo interno la diserzione, per favorire una diversa e più favorevole dislocazione delle forze in campo. In questo contesto la partecipazione è democratica se, e perché, “dà voce” ad attori individuali o collettivi che nella vita ordinaria non ne hanno; o la cui voce viene sovrastata da chi si arroga il potere di parlare in loro vece. Ma questo è quasi sempre un processo convulso. D’altronde ne abbiamo una riprova grandiosa nel movimento NoTav della Valle di Susa: forse l’esperienza più vasta, duratura e articolata di democrazia partecipata nell’Italia e nell’Europa degli ultimi cinquant’anni (ma molte lotte operaie e studentesche sono, da questo punto di vista, altrettanto esemplari).

Se un nucleo organizzato può giovarsi di una modalità di discussione e decisione che ricalca, seppure informalmente, l’articolazione in gruppi e report del metodo party, soluzioni del genere sono per lo più impraticabili nei momenti di mobilitazione; e molto spesso un’eccessiva formalizzazione è proprio il metodo più efficace per smorzare la mobilitazione. Una verifica sul campo della evoluzione del Laboratorio di Napoli “per una Costituente dei beni comuni” a cui fa riferimento il nostro manifesto gioverebbe grandemente a una riflessione su questo punto.

Tutto ciò dovrebbe guidarci nel definire meglio il rapporto tra democrazia partecipativa, democrazia rappresentativa e democrazia diretta. E innanzitutto quello tra “movimenti” e “istituzioni”: i primi sono instabili e soggetti ad alti e bassi; le seconde sono assai più “solide” (anche troppo) e tanto più solide quanto più impermeabili. Ma i primi hanno una capacità di elaborare proposte e contenuti, e di imporli con la forza della mobilitazione, che le seconde non hanno, a meno di mettersi al servizio dei movimenti; in compenso hanno un “potere legittimante” a cui i movimenti, per la loro stesa natura, non possono aspirare. Come sostiene il manifesto, entro l’orizzonte temporale in cui ci è consentito riflettere e prospettare il futuro, entrambe queste forme di democrazia, quella partecipata e quella rappresentativa, sono destinate a convivere. Ma la democrazia partecipativa è sempre il risultato di un apporto che non può ridursi al mero prendere parte alle decisioni o alle scelte, come invece è – o dovrebbe essere; perché spesso non è nemmeno questo – la democrazia rappresentativa basata sul voto ogni tot anni. Partecipare vuol dire mettere a disposizione di un collettivo saperi, esperienze, saper fare, attività ed emozioni di cui la democrazia rappresentativa non sa che farsene.

Per questo la democrazia partecipativa non va confusa con la democrazia diretta (quella dei referendum o delle consultazioni on-line), perché la prima presuppone appunto apporti personali (tanto maggiori quanto più è democrazia di prossimità, quella che si realizza nel contesto di incontri tra persone afferenti allo stesso territorio) e processi condivisi di riflessione, di crescita e di maturazione che la seconda esclude o comunque non contempla. Inoltre la democrazia partecipativa non esclude processi di delega, purché con vincolo di mandato e revocabilità dei delegati; processi che vanno invece esclusi sia nella democrazia rappresentativa che in quella diretta.

Il terzo rilievo – non al manifesto che non ne fa mai menzione – ma alla sua interpretazione prevalente all’interno di Alba, rilievo che ho più volte esplicitato senza tuttavia insistervi a sufficienza (ma che ora vedo ripreso da Revelli e Pepino nell’introduzione del libro Grammatica dell’indignazione, e che ho già sentito a Bari in bocca a Giuseppe De Marzo) riguarda la connotazione di Alba come organizzazione “di” o “della sinistra”. Io, che non mi considero “di sinistra” – ma che non per questo sono di destra o di centro – penso non solo che questa connotazione sia un recinto che ci isola da un numero molto elevato di potenziali interlocutori con cui potremmo invece condividere molti dei temi che ci vedono impegnati, ma anche che ci squalifichi agli occhi dei molti per i quali “sinistra” vuol dire PD. O anche solo “politica”, intesa come malaffare, prepotenza, accaparramento, che sono accuse – più che giustificate – che investono prevalentemente le forze della sinistra, ufficiale e non,  assai più impegnate nella difesa del valore astratto della “politica” – senza ulteriori specificazioni – delle  organizzazioni di centro e di destra, che dell’antipolitica fanno spesso la loro bandiera.

Ma la ragione che mi rende diffidente verso questa connotazione è soprattutto un’altra: troppo spesso – e non certo in Alba – l’essere o il dichiararsi “di sinistra” viene vissuto e praticato come un alibi; o come una forma di pigrizia mentale, per esimersi dal mettere in discussione le proprie convinzioni: cioè per non andare a fondo su temi e interrogativi che ci uniscono e ci possono unire ad altri al di fuori del nostro “recinto” – in questo caso della “sinistra” – e che con ciò stesso ci mettono in conflitto con altri. Così come su temi che invece potrebbero dividerci. Per poi scoprire, magari, che su molti argomenti dirimenti, come immigrazione, amnistia, meritocrazia, Grandi opere, euro, per non parlare del rapporto tra i generi; oppure su temi quali aborto, eutanasia, omosessualità – o, ancora, sul termine più equivoco di tutti, che è “violenza” – la pensiamo diversamente, o pratichiamo comportamenti tra loro incompatibili. Quindi, meglio eliminare quella che per me è una ingombrante etichetta – l’essere “di sinistra” – e andare al fondo delle cose.

A parte alcuni paradossi, che non riguardano – spero – Alba, ma il cosiddetto “popolo della sinistra”, una ridefinizione, con parole nuove e non logorate dall’uso e dell’abuso da parte dei media, ci aiuterebbe molto a ridefinire la nostra collocazione, e ci fornirebbe forse un linguaggio per entrare più facilmente in comunicazione con persone che appartengono a un ambiente culturale diverso dal nostro, o anche uno schieramento apparentemente opposto.

 

 

 

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