Sovvertire il presente (“il manifesto”, 8 maggio 2013)
Assistiamo da decenni, impotenti, a una continua espropriazione del Parlamento, peraltro consenziente, e per suo tramite del “popolo sovrano”. Le principali tappe di questo processo sono state: 1. La separazione della Banca centrale dal controllo del Governo (anni ’80) per contrastare le rivendicazioni salariali, che ha dato a un organo non elettivo il potere (poi trasferito alla BCE) di decidere le politiche economiche e sociali del paese; ma soprattutto ha fatto schizzare verso l’alto il debito pubblico mettendolo in mano della finanza; 2. Le molte riforme del sistema elettorale, dall’abrogazione del sistema proporzionale (“una testa un voto”, principio basilare della democrazia rappresentativa) al cosiddetto porcellum, che trasferisce dagli elettori alle segreterie dei partiti la scelta dei propri rappresentanti; 3. La cancellazione della volontà di 27 milioni di elettori nal referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici con ben quattro leggi controfirmate da Napolitano (l’ultima anche dopo che la Corte costituzionale aveva dichiarato illegittime le prime tre), come anni prima, con il referendum per l’abrogazione del finanziamento pubblico dei partiti; 4. L’imposizione di un “governo tecnico” con un programma (l’”Agenda Monti”) imposto dalla BCE, e attraverso questa, dall’alta finanza sotto “l’incalzare” dello spread: una sudditanza che non avrà più fine, perché da allora la finanza che controlla il debito pubblico potrà imporre a qualsiasi governo le misure che vuole; 5. il Governo Letta, conclusione logica di questo processo, che azzera la volontà di tre quarti degli elettori italiani (un quarto astenuti; un quarto cinque stelle; un quarto “centro sinistra”) tutti determinati, con il voto o il non voto, a cancellare le politiche di Monti e Berlusconi); 6. Il progetto, non nuovo, di cambiare in senso presidenziale la Costituzione. Questa progressiva espropriazione del Parlamento e degli elettori serve a creare un interlocutore unico che risponda direttamente ai cosiddetti “mercati” (cioè alla finanza, che è la forma attuale del dominio del capitale a livello globale), annullando sia i poteri dei governi nazionali e soprattutto dei Comuni, dai quali dipende la gestione della vita quotidiana e della convivenza civile di ogni comunità, sia la prospettiva di cambiare la propria condizione con il conflitto.
Questa deriva, che riguarda tutta l’Europa, non porta a una ripresa (ormai prevista da ben cinque anni, per essere ogni volta rimandata all’anno successivo); bensì al disastro della Grecia, che ormai incombe anche su Spagna, Portogallo, Cipro e Slovenia; ma già investe in pieno anche l’Italia; e poi la Francia e l’Olanda; e presto persino la Germania: il cui governo fa da scudo agli interessi dell’alta finanza solo per non scoprire la situazione disastrosa delle sue banche, che ne sono parte integrante. Ma la resa dei conti si avvicina: un disastro planetario: nemmeno le economie di Cina, India e Giappone vanno più molto bene, mentre la catastrofe ambientale incombe su tutti. In Italia l’occupazione crolla; la disoccupazione dei giovani è al 40 per cento (e gli altri sono precari o hanno rinunciato a cercare un lavoro; ma questi giovani presto saranno adulti, e poi anziani, senza alcuna speranza di un lavoro, di un reddito stabile, di una casa, di una famiglia, della possibilità di mantenere dei figli, di una pensione); scuola, università e ricerca affondano; migliaia di aziende chiudono e non riapriranno più; e non ne nascono di nuove; e con esse spariscono mercati di sbocco, know-how, competenze, abitudine alla collaborazione, coesione sociale, solidarietà. Perciò anche il Governo Letta nasce già vacillante e quel processo di accentramento rischia produrre regimi ancora più duri, magari sotto la di facciata mdi un antieuropeismo demagogico e populista, solo per nascondere una subordinazione anche più stretta alla finanza.
Per invertire quel processo occorre far saltare i vincoli che inchiodano le politiche economiche e sociali dei governi europei agli interessi dell’alta finanza: i patti di stabilità esterno e interno; il fiscal compact; il pareggio di bilancio; il taglio di spesa pubblica e pensioni; la privatizzazione dei beni comuni e dei servizi pubblici; la diffusione del lavoro precario. Ripudiare quei vincoli richiede un programma di respiro generale che unisce a livello europeo; che può e deve contare su tutte le rivolte e le mobilitazioni contro i vincoli del debito che da tempo si moltiplicano in un numero crescente di paesi, o che prima o poi esploderanno.
Ma per opporsi all’azzeramento della sovranità popolare non basta restituire al Parlamento quei poteri che i partiti che lo occupano non vogliono né usare né difendere. All’accentramento dei poteri va contrapposto, in tutti i paesi d’Europa, il progetto di un loro radicale decentramento: un governo dei territori, dei servizi pubblici e delle imprese basato sulla democrazia partecipata promossa dalla componente attiva della cittadinanza in un regime di trasparenza e leggibilità dei bilanci assolute. Per recuperare e potenziare quelle funzioni delle Municipalità che i patti di stabilità stanno soffocando. Ma se è chiaro quali sono le forze che lavorano per l’esautoramento della sovranità popolare, dove sono mai “i soggetti” in grado di elaborare, perseguire e portare a compimento un programma alternativo?
Quei soggetti non ci sono. Vanno costruiti. Ma senza distogliersi dai loro obiettivi specifici, le potenzialità dei movimenti, dei comitati, delle associazioni, delle iniziative civiche – ma anche e soprattutto quelle dei milioni di cittadini che in Italia espresso con il voto la volontà di liberarsi di Monti e Berlusconi – possono trovare una convergenza nel progetto di imporre alle rispettive amministrazioni comunali – alle poche disponibili, ma soprattutto alle molte che non lo sono – quel ruolo peculiare che le politiche di accentramento stanno azzerando: far saltare il patto di stabilità interno; quello che impedisce ai Comuni di far fronte ai propri compiti istituzionali, ma soprattutto che inibisce loro la possibilità di farsi promotori di una radicale conversione ecologica imperniata su un potere diffuso nei territori. Un passo irrinunciabile per costruire un’alternativa concreta al potere della finanza a livello sia locale che nazionale ed europeo. Non è vero che “non ci sono i soldi” per politiche di promozione dell’occupazione, di sostegno dei redditi, di riconversione delle imprese, di salvaguardia del welfare e dell’ambiente. Nel mondo di denaro, o titoli equivalenti, ce ne è anche troppo: oltre dieci volte il valore del Prodotto Lordo mondiale; e anche in Italia non manca di certo. Ma è nelle mani sbagliate: di speculatori che lo usano per metter alle corde lavoratori, amministrazioni locali, piccole e medie imprese e governi. Con quella massa immane di denaro l’alta finanza – che è ormai mera speculazione: fare denaro con il denaro a spese di chi non ne ha – impone la sua volontà ovunque. Ma tutto quel denaro è “solo” virtuale: funziona finché gli Stati gli riconoscono un valore; in fin dei conti non è che una gigantesca “bolla finanziaria” creata nel corso degli anni e tenuta in piedi – fin che dura – dalle scelte operate da banche centrali, governi e parlamenti asserviti alla sua potenza. Come si è creata può essere sgonfiata e ricondotta alle dimensioni necessarie ad alimentare il credito e i redditi che fanno circolare beni e servizi sui mercati. Ma perseguire un sovvertimento del genere occorre un programma che renda praticabile un diverso modo di organizzare il lavoro, le imprese, l’amministrazione pubblica e i consumi: il nostro “stile di vita”. Questo programma è il recupero della sovranità all’interno di ogni territorio non solo in termini politici, ma anche in campo economico: sovranità alimentare (filiera corta per le produzioni agroalimentari); energetica (fonti rinnovabili ed efficienza energetica); nella gestione delle risorse (soprattutto di ciò che oggi bistrattiamo come rifiuti); sui suoli (sottratti a speculazione edilizia e infrastrutture devastanti); monetaria (controllo partecipato di banche e monete locali); e, ovunque possibile, anche sulla produzione industriale (filiere corte con accordi diretti tra produttori e consumatori associati). In tutti questi campi il ruolo promozionale di una municipalità democratica e partecipata è fondamentale. Utopia? I prossimi anni non saranno la prosecuzione di quelli che abbiamo alle spalle. Siamo ormai in mezzo a sconvolgimenti radicali; e altri, anche maggiori, sono in arrivo. O li affrontiamo con uno sguardo capace di vedere oltre le miserie del presente, o ne rimarremo soffocati (www.guidoviale.it)
Tag: BCE, disoccupazione giovanile, europa, precariato, sovranità