Su una possibile riconversione delle ex carrozzerie Bertone, ora della Fiat (il manifesto, 23 aprile 2011)
Ci risiamo. Adesso è il turno delle carrozzerie Bertone. Il ricatto è sempre quello: o fate quel che dico IO – rinunciate alla salute (quel poco che vi resta), ma anche ad ammalarvi; alla famiglia (vi aspettano diciotto turni più gli straordinari); ai diritti (quello di sciopero e quello di scegliere i vostri rappresentanti); ai ricorsi in tribunale (Marchionne è allergico ai giudici come Berlusconi; molto meglio gli “arbitri” introdotti da Sacconi) – o si chiude e me ne vado altrove. Non cambia nulla il fatto che alla Bertone la Fiom sia in maggioranza, e alla grande; che le produzioni siano e debbano restare di qualità (il motivo per cui la BMW ha aperto uno stabilimento “lento”, dove per garantire la qualità non si tagliano i tempi e, dunque, possono lavorarvi anche e soprattutto gli anziani); che lo stabilimento, con i suoi operai – comprati e venduti insieme a capannone, marchio e macchinario, come altrettanti “servi della gleba” – sia stato acquisito a un quinto del suo valore commerciale, grazie al fatto che la Fiat aveva “garantito” alla precedente gestione fallimentare la continuità dei 1.100 posti di lavoro. Quel cammino costellato di fanfaluche e menzogne (a partire dai 20 miliardi di investimento del fantomatico piano “Fabbrica Italia”, passando per l’assicurazione che l’accordo di Pomigliano non sarebbe stato riproposto in nessun altro stabilimento del Gruppo, senza dimenticare che la produzione prospettata per la Bertone era la Jeep poi trasferita a Mirafiori) è ormai tracciato per tutti. Ma nel frattempo si è fatta molta altra strada: se Marchionne può imporre i suoi diktat – o rinunciate a essere cittadini di serie A oppure chiudo – alla Thyssen Krupp (già il nome di questo gruppo avrebbe dovuto suscitare un certo allarme) sono già arrivati a dire: o ci assolvete – e sanzionate il nostro diritto a mandare impunemente a morte i “nostri” lavoratori – o ce ne andiamo. E’ chiaro che con le relazioni industriali ridotte a questo livello un paese non è destinato a un grande avvenire.
Per di più il ricatto di Marchionne parte da un Gruppo che in un anno ha perso il 20 per cento del suo mercato; ma Chrysler, alla vigilia della sua conquista da parte di Fiat (“aiuto, aiuto! Ho fatto un prigioniero”) ne ha perso il 45 per cento: Jeep e Suv, proprio i veicoli alle cui sorti è legato il rilancio di Mirafiori. Questa autentica débacle svela, se ancora ce ne fosse bisogno, che cos’era, ed è, il piano “Fabbrica Italia” con i suoi fantomatici 20 miliardi di investimento. Marchionne le ha sparate grosse sicuro che prima o poi – anche se, forse, più poi che prima – qualcuno avrebbe detto “basta!”; offrendosi come capro espiatorio su cui scaricare la responsabilità del fallimento di un piano senza capo né coda, e nemmeno zampe con cui marciare. A dargli man forte in questo scaricabarile si sono candidati da tempo i sindacati gialli e collaborazionisti, il governo e Confindustria; ma anche il variegato coro di ammiratori dell’audacia imprenditoriale di Marchionne, tra cui spiccano il quasi ex sindaco e il quasi futuro sindaco di Torino: quelli che sanno che cosa fare “se fossero operai”.
Eppure, se è stata persa l’occasione di riconvertire a produzioni utili e sostenibili (senza Marchionne, ma con risorse anche della Fiat) lo stabilimento in dismissione di Termini Imerese, ormai condannato a ben sette produzioni diverse di pura fantasia (dai fiori recisi ai Suv di alluminio), promosse da “imprenditori” pronti e sperimentati nell’addentare come squali i finanziamenti di Governo e Regione, il caso Bertone potrebbe offrire agli operai sotto ricatto, ma anche e soprattutto ai loro concittadini e a tutto il paese, una seconda chance.
Se Marchionne non sa che farsene di uno stabilimento ipermoderno come le carrozzerie Bertone senza aver prima asservito completamente i suoi operai, la città di Torino, e quella di Grusgliasco che lo ospita, e tutti gli altri comuni della cintura, potrebbero riprenderselo. E farne il perno di un progetto di riconversione alla mobilità sostenibile fondato sull’integrazione intermodale tra trasporto urbano di massa e trasporto a domanda; un progetto che, una volta avviato, potrebbe essere esportato e replicato in molte altre città; e in tutto il mondo. Certo, il quasi ex sindaco e il quasi nuovo sindaco di Torino non sono le figure più adatte a un compito del genere; perché – ma in questo non sono certo soli – sono incapaci di guardare le cose con i propri occhi e sanno usare solo quelli di Marchionne. E senza l’amministrazione di una conurbazione grande come Torino e il suo hinterland, che potrebbe offrire un mercato adeguato al lancio delle nuove produzioni, una riconversione del genere non si può fare. Ma l’amministrazione comunale, e quella provinciale, e persino quella regionale dell’orrendo Cota, potrebbero essere trascinate lungo un percorso del genere.
Perché un progetto di mobilità sostenibile non è solo un piano industriale da sviluppare all’interno di uno stabilimento; e non è fatto solo di veicoli di nuova concezione, a basso impatto e progettati per essere “condivisi”. E’ fatto anche, e soprattutto, di saperi, di strutture tecniche, di imprese di trasporto decentrate, ma collegate tra loro; e poi, di conoscenze del territorio, dei suoi orari, dei suoi ritmi, dei suoi bisogni, dei suoi impegni, delle sue attese. E’ un progetto sociale, prima ancora che ambientale, che richiede il sostegno e l’attivazione di tutta la cittadinanza: delle sue associazioni, delle sua istituzioni, dei suoi enti, dei suoi ospedali, delle sue imprese, delle sue scuole delle sue università. Cioè di tutte quelle collettività che possono garantire uno zoccolo duro al mercato di una nuova modalità di spostarsi in città. E poi di università, centri di ricerca e imprese di progettazione e di comunicazione che ne mettano a punto il sistema di governo. E poi di cooperative di autisti che concorrano alla gestione del sistema, integrandosi con il GTT (l’azienda di trasporto pubblico locale) e con la rete dei taxi individuali; e di call-center capaci di rispondere in modo efficace ai problemi che si pongono (e quindi in grado di includere percorsi di carriera e di professionalizzazione). E poi di progressive limitazioni del traffico privato che concorrano a creare e sostenere la domanda di trasporto condiviso, ma anche a restituire le vie, e le piazze, e i viali, e i cortili della città agli umani; e soprattutto ai bambini.
Ma chi finanzierà un progetto del genere? E’ l’ultimo dei problemi da porsi. Oggi i soldi si sprecano per interventi senza ragioni e senza avvenire: basta pensare alla Tav Torino-Lione; ma anche a una linea di metropolitana sotterranea che corre per chilometri di fianco a un tracciato ferroviario già esistente. Sono cose che si fanno solo da noi; per sostenere una riconversione produttiva suicida, che al declino dell’industria dell’auto pensa di ovviare con una serie ininterrotta di grandi lavori da dare in pasto ai costruttori: olimpiadi, metrò, Tav e poi, chissà che altro ancora. Mentre l’avvenire è davanti a nostri occhi e si chiama conversione ecologica, passaggio a produzioni sostenibili e a e consumi condivisi. Basta volerlo vedere.
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