Sul divieto di commercializzazione degli shopper non biodegradabili (GSA Igiene urbana, 19 febbraio 2011)
Da gennaio di quest’anno, quelli non biodegradabili sono (teoricamente) fuori legge. Bisogna sostituirli con sacchetti in biopolimeri o ci sono alternative più pratiche, meno costose e con un impatto ambientale minore.
Il problema
Il problema degli shopper non biodegradabili nasce dalla Legge 296/06 (la “finanziari” 2007, varata dal governo Prodi) che, ai commi 1129, 1130 e 1131 vietava, dal 1° gennaio 2011, la commercializzazione delle buste per asporto della merci non biodegradabili. All’origine di questo divieto c’è una lunga guerra del mondo ambientalista, o di una parte di esso, contro la moltiplicazione degli imballaggi inutili (gli shopper – molti ritengono – possono essere validamente sostituiti da sporte o retini riusabili); in particolare contro gli imballaggi di plastica (perché è il materiale che, per i problemi connessi alla sua raccolta differenziata e alla selezione dei polimeri, risulta più refrattario al riciclo e finisce in larga parte ad alimentare gli inceneritori, avendo peraltro un potere calorifico pari a quello del petrolio, e più alto di tutti gli altri rifiuti); e soprattutto contro i “sacchetti” che, oltre a tutti gli altri problemi, quando finiscono in mare o nei corsi d’acqua, sono all’origine del soffocamento di molte specie ittiche, che li scambiano per prede. Tutte cose sacrosante, ma che andrebbero affrontate in una prospettiva più concreta.
Nessuna misura ambientale senza adeguate politiche industriali
Innanzitutto la formulazione della norma è molto generica e gli operatori interessati (praticamente tutte la aziende di commercio al dettaglio e tutti i produttori di shopper) si attendono giustamente dei chiarimenti da parte delle autorità competenti. In secondo luogo, il divieto, una volta entrato in vigore, è destinato a “spiazzare” i produttori di shopper non biodegradabili: le aziende che li producono – verosimilmente insieme ad altri articoli simili – contano circa 4mila addetti e, secondo il direttore generale di Unionplast, hanno attualmente tre quarti degli addetti in cassa integrazione. Non è una ragione sufficiente per autorizzare la continuazione di una produzione che si ritiene nociva. Ma se si ritiene importante o irrinunciabile metterla al bando, sarebbe una buona regola predisporre progetti, proposte e incentivi per aprire alle aziende e ai lavoratori colpiti la strada di una riconversione produttiva. E’ una regola che dovrebbe accompagnare tutte le politiche ambientali, se non si vuole renderle invise e inaccettabili alle popolazioni che se ne dovrebbero giovare. Il caso degli shopper è un piccolo esempio; quello degli impianti inquinanti, dell’industria degli armamenti, o di altri settori da ridimensionare, sono evidentemente molto più importanti; ma la regola vale per tutti e se non si comincia ad adottarla nei casi più semplici, come quello degli shopper, si va incontro a un disastro in tutti i settori nei quali il rientro di produzioni e consumi entro parametri di sostenibilità rischia di imporre sacrifici ben maggiori.
Non sappiamo se il Governo Prodi, che aveva varato questa norma, avrebbe poi provveduto sia a una sua maggiore determinazione in sede di decreti attuativi, sia a mettere in campo delle misure di riconversione per i lavoratori e le aziende colpite dal divieto. Fatto sta che il nuovo Governo che gli è succeduto, pur confermando e mantenendo in vigore il divieto, non ha fatto niente di tutto ciò e, di fronte alle pressanti richieste degli operatori del settore, il Ministero dell’Ambiente si è limitato, lo scorso dicembre, a promettere che “monitorerà il settore”, per vedere se il mercato si assesterà da solo, o se richiederà misure specifiche. Per il momento si è limitato a fissare due differenti proroghe dell’entrata in vigore del divieto, una più stretta per la Grande Distribuzione e una più lasca per il dettaglio minuto: per permettere al sistema distributivo di smaltire le scorte; nessuna proroga, invece, per chi gli shopper li produce. Il che sarebbe stato sensato se, nei tre anni in cui è stato già in carica, il Governo avesse cercato di affrontare il problema; il che non è stato.
Non si sa se il divieto è destinato a durare
Per questo diverse associazioni, tra cui Unionplast e il consorzio CARPI, hanno già imbracciato il fucile e impugnato la legge alla Corte di Giustizia Europea sulla base del fatto che una norma del genere, prima di diventare effettiva, deve essere sottoposta a un giudizio di conformità con la normativa comunitaria da parte dei competenti uffici della Commissione Europea; il che non è stato fatto. Tanto più che un analogo provvedimento, varato nel 2006 dalla Francia, era stato poi ritirato dopo un giudizio sfavorevole della Corte. A queste obiezioni il Ministero ha risposto che la normativa europea sulla protezione dell’ambiente giustifica ampiamente misure di carattere limitativo come quelle assunte e che il ritiro della norma da parte della Francia era stato un atto unilaterale, volontario, e non obbligato.
Sull’esito di questa disputa di ordine legale ritorneremo probabilmente nei prossimi numeri, quando se ne saranno chiariti maggiormente i termini. Qui ci limitiamo invece ad affrontare alcuni problemi pratici sollevati dal divieto degli shopper non biodegradabili, che sono di grande rilevanza sia per le nostre abitudini quotidiane, sia per l’organizzazione del lavoro, sia per la sostenibilità ambientale in genere. Le questioni sono tre:
Quali shopper?
E’ innanzitutto necessario distinguere quattro diversi tipi di buste usate per l’asporto delle merci: gli shopper veri e propri, cioè quelli distribuiti alle casse dei supermercati, nei negozi e nei mercati di prodotti alimentari e di merci varie; i sacchetti sottili usati per prelevare e pesare frutta e versura nei supermercati; i sacchetti di piccola taglia utilizzati per l’asporto di articoli di ridotte dimensioni in farmacie, cartolerie, ferramenta ecc. Le buste di plastica di grandi dimensioni, e a volte assai robuste, in cui spesso vengono imballati i capi di abbigliamento e che, teoricamente, sono riutilizzabili, anche se non hanno le stesse caratteristiche delle borse di tela o di plastica in vendita nei supermercati come shopper riusabili. Rimandando al punto successivo il problema della biodegradabilità, resta il fatto che, mentre per tutte le rimanenti tipologie di “sacchetti” esistono in commercio anche validi sostituti usa e getta in carta o cartone, tutta l’organizzazione dei supermercati e di molti punti vendita a libero servizio è stata costruita scontando la disponibilità dei sacchetti leggeri per il prelievo e la pesatura dei prodotti ortofrutticoli, per i quali la sostituzione con equivalenti sacchetti di carta trasparente – cellophane – è assai problematica. D’altra parte queste buste leggere sono proprio il materiale più pericoloso: non solo perché scarsamente riutilizzabili per altri scopi, come quello del conferimento dei rifiuti indifferenziati, ma perché più facili da disperdere nell’ambiente e più pericolosi per la fauna e per la flora quando raggiungono l’alveo di un fiume o il mare. I paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina sono letteralmente infestati da questa tipologia di rifiuto abbandonato un po’ ovunque, tanto da spingere molti di essi, ben prima di noi, a proibirne l’utilizzo, ormai diffusissimo nella vendita al dettaglio di alimenti.
Che cosa vuol dire biodegradabile.
Biodegradabile non vuol dire compostabile. In base alle norme UNI sono compostabili, cioè adatti ad essere trattati insieme agli scarti organici, soltanto i sacchetti composti da biopolimeri derivati dall’amido – come il materB – le cui molecole si decompongono in presenza di umidità in un periodo non superiore ai sei mesi (negli impianti di compostaggio, in un tempo molto minore). Ma sono considerati biodegradabili, ma non compostabili, anche le cosiddette plastiche oxo-biodegradabili, che sono film di plastiche tradizionali di origine oleofinica – in genere polietilene o polipropilene – trattate con additivi che ne facilitano la decomposizione al contatto con l’ossigeno dell’aria; ma in non meno di un anno. Sono invece considerati scarsamente biodegradabili le plastiche additivate con una sostanza detta ECM (MasterBatch Pellets), che hanno tempi di decomposizione superiori all’anno, e per non più del 50 per cento del materiale; contro i produttori di questo materiale, presentato a suo tempo come biodegradabile, sono state recentemente comminate delle sanzioni dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) per pubblicità ingannevole.
In ogni caso, se i sacchetti in biopolimeri vengono conferiti alla raccolta differenziata della plastica, o recuperati dalla frazione indifferenziata in impianti di selezione manuale e meccanica, non sono comunque riciclabili come plastica e possono anche creare problemi. Viceversa se i sacchetti in plastica oxobiodegradabile, che sono riciclabili, vengono invece conferiti a un impianto di compostaggio come contenitori di rifiuti organici, ostacolano il processo e possono comunque compromettere il risultato. Nel primo caso si ha uno spreco di materiale; nel secondo una possibile degradazione del compost. Indubbiamente l’adozione di shopper riutilizzabili (sporte e retini), di sacchetti di cellophane o di contenitori riutilizzabili flessibili e certificati, per l’asporto di frutta e verdura dai supermercati potrebbe eliminare entrambi i problemi. Ma ci vorrebbe un accordo con tutti gli esercizi della rete distributiva, nell’ambito di una politica industriale orientata alla sostenibilità di cui per ora non si vede traccia.
Ma i biopolimeri sono ecologici?
L’ultima questione fondamentale non riguarda solo gli shopper in biopolimeri – orai distribuiti alla grande nei supermercati in sostituzione di quelli non biodegradabili, e importati per lo più, per il loro minor costo, dalla Cina; e nei quali è stata anche denunciata la presenza di additivi non consentiti e pericolosi per la salute – ma tutti i prodotti usa e getta ricavati da colture biologiche: primi tra tutti le stoviglie in materB che danno una nota “ecologica” alle feste e alle manifestazioni pubbliche in cui si fa un gran uso di prodotti usa e getta. Sono veramente ecologiche?
No. Certo non più dei cosiddetti biocarburanti – o, più propriamente, “agro carburanti” – promossi, sponsorizzati e largamente finanziati da molti governi – compresa l’Unione Europea – come alternativa ai combustibili di origine fossile; ma che oggi sono sotto accusa per svariati motivi: sottraggono acqua e suolo alle colture alimentari in un mondo che ha sempre più fame; fanno salire alle stelle i prezzi delle derrate alimentari proprio a causa della concorrenza delle cosiddette colture energetiche lautamente sovvenzionate; sono all’origine della distruzione di molte foreste primarie in diversi paesi tropicali; sono ricavate da colture che fanno larghissimo uso, con conseguente degrado del suolo, di fertilizzanti e pesticidi sintetici ricavati dal petrolio, che fanno ampio ricorso a macchinari, impianti e attrezzature alimentate con combustibili fossili sia sul campo, in fase di coltivazione, che nella lavorazione, in fase di trasformazione; talché il bilancio finale delle emissioni climalteranti presenta spesso, rispetto ai combustibili fossili, un saldo positivo molto ridotto o nullo. Purtroppo quello che vale per i biocombustibile vale a maggior ragione per i biopolimeri utilizzati nei prodotti usa e getta. La tecnologia offre dei validi sostituti: servizi mobili a noleggio di fornitura e lavaggio di stoviglie pluriuso. Alcuni comuni se ne fanno carico. In altri bisogna rivolgersi a qualche impresa privata. Ma è un settore con un sicuro avvenire
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