Sulla manifestazione di Roma del 15 ottobre (il manifesto, 21 ottobre 2011)
Il 15 ottobre scorso a Roma la rabbia di chi era deciso a manifestare la propria indignazione puntando ai “Palazzi” e ai simboli del potere è stata assai più facilmente “sfogata” a spese e contro il corteo e gli obiettivi di centinaia di migliaia di altre persone. Facendosene scudo e prendendole in ostaggio; e beneficiando, tra l’altro, di comportamenti delle forze dell’ordine che hanno enormemente facilitato quest’esito. Quelle persone si erano invece convocate e riunite per manifestare in tutt’altro modo: cioè pacificamente; e con tutt’altro obiettivo: quello di dare, innanzitutto a sé stessi, e poi al mondo intero, una immagine circostanziata e “aggiornata” delle forze e delle idee che si contrappongono alle scelte che stanno portando le loro vite, quella del nostro paese e quella dell’intero pianeta a imboccare una deriva senza ritorno.
Iniziative che si concludono con scontri con le forze dell’ordine e con assalti più o meno devastanti ai simboli del potere non sono un’esclusiva del nostro paese, né di questa stagione: hanno spesso accompagnato, e a volte caratterizzato, alcune delle scadenze con cui, nel corso degli ultimi dodici anni, il movimento “altermondialista” ha cercato di rendere visibile al mondo il suo totale dissenso dalle scelte compiute dai cosiddetti “Grandi della Terra”. Ed è probabile, quale che ne sia la valutazione che ciascuno ne dà in base ai propri principi morali o alle proprie valutazioni politiche, che iniziative più o meno analoghe si faranno più frequenti negli anni a venire, in concomitanza con l’aggravarsi della stretta finanziaria, economica e ambientale che sta distruggendo la convivenza umana sull’intero pianeta. Lo confermano le recenti vicende della Grecia, giunta ormai a una fase della crisi che per molti versi anticipa e prefigura quello che sembra destinato a succedere in molti altri paesi, tra cui il nostro. Questo è uno degli aspetti della crisi con cui bisogna imparare a convivere, adoperandoci, se e perché lo si ritiene rovinoso, o pericoloso, o anche solo sbagliato, per limitarne le dimensioni e gli effetti.
A Roma la scelta di chi ha voluto a ogni costo dare a questa giornata un esito violento a spese di tutti gli altri è stata “giustificata”- quando lo è stata – con motivazioni che denotano una totale subalternità alla cultura e ai pregiudizi dominanti. Per esempio quella di “far saltare” un presunto accordo, con finalità elettorali, tra il centro-sinistra – o una parte di esso – e alcune delle organizzazioni che hanno promosso la manifestazione; oppure (si è letto e sentito anche questo) quello di dare corpo alla rabbia dei precari contro la o le generazioni precedenti – largamente rappresentate nel corteo – che avrebbero rubato il loro futuro con i loro “diritti acquisiti”.
La prima motivazione evidenzia come, anche tra i segmenti più ai margini – e che per questo si ritengono più ”radicali” – si siano ormai insediati approcci tutti interni agli schemi della politica più deteriore: quella interamente costituita dal mercanteggiamento delle scomposizioni e ricomposizioni degli schieramenti che tutti i giorni ci viene esibita dal ceto politico. La seconda motivazione riprende il cliché che mira spiegare e affrontare la crisi in termini di scontro generazionale e non di conflitto tra sfruttati e sfruttatori; tra lavoro e capitale; tra poveri e ricchi; tra chi paga le tasse e chi le evade; tra chi cura l’ambiente e chi lo devasta; tra ricostruzione e distruzione dei legami sociali.
In entrambi i casi – e, probabilmente, in molti altri che occorre affrontare con pazienza e umiltà, nelle sedi più aperte e più appropriate – la posizione di chi ha voluto portare la giornata del 15 ottobre all’esito che ha avuto è simmetrica e speculare a quella di tutti i media e i giornalisti che la hanno commentata. I quali si sono limitati a distinguere – nel migliore dei casi – o a confondere – in tutti gli altri – un ridotto gruppo di vandali “violenti” e una stragrande maggioranza di manifestanti “pacifici”. Ma non hanno colto, per malafede, per mancanza di cultura, per incomprensione, le caratteristiche principali di quella giornata. Sicché la cultura degli uni – i media – spiega molto del comportamento degli altri: i “violenti”. Poche osservazioni bastano a evidenziarlo.
1. Si è manifestato nello stesso giorno in più di 80 paesi e in più di 500 – o 900? – città: contro gli stessi eventi, le stesse entità, con le stesse parole d’ordine; con uno slogan che, come ha ricordato Naomi Klein parlando a Zuccotti Park, è partito l’anno scorso dal movimento degli studenti italiani (“Noi la vostra crisi non la paghiamo”) e, a un anno di distanza, è rimbalzato in tutto il mondo nella forma: “Il debito non si paga”. Vorrà pur dire qualcosa questo obiettivo, se è così condiviso da milioni di manifestanti, nonostante che sia così osteggiato dall’establishment accademico, politico, finanziario e mediatico, che non riesce nemmeno a prenderlo in considerazione come ipotesi. O no? E, quale che ne possa essere la realizzazione, non sarà questo obiettivo altrettanto rilevante, e molto di più in termini prospettici, delle “violenze” che si sono viste in piazza a Roma?
2. La manifestazione di Roma è stata di gran lunga la più ampia del mondo: dieci o venti volte di più della maggiore di quelle che si sono svolte nelle altre città. Qui non interessa la “conta”; Maurizio Landini ci ha insegnato, giusto un anno fa, a non impuntarsi su conte del genere, dove la meglio ce la ha sempre e comunque chi controlla i mezzi di comunicazione di massa. Ma nessuno, sembra, si è chiesto come mai fossimo in tanti. Non certo per la presenza dei black-block, o di chiunque sia stato designato con questo termine! E’ il fatto di essere stata voluta, convocata, preparata e condivisa da un numero di persone che già pochi mesi fa ha dato un’idea della propria consistenza con i referendum contro la privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali, contro il nucleare e contro l’immunità di Berlusconi
3. Questa manifestazione, infatti, non è stata convocata da nessun partito, da nessuno dei sindacati cosiddetti maggioritari – quelli che siedono, o sedevano, al tavolo delle trattative nazionali – da nessuna delle istituzioni che pretendono di rappresentare il paese o una sua componente. E’ stato il frutto di mille, diecimila iniziative “dal basso”, alcune esclusivamente locali, altra ormai consolidate, o temporaneamente coordinate, a livello nazionale; che si sono riconosciute in un comune sentire: quello dell’”indignazione”, per usare un termine che, più che scelto, gli è stato appiccicato addosso: benvenuto! Non solo contro Berlusconi (negli altri paesi questo problema non esiste). Ma contro la finanza internazionale, le sue scelte e le sue imposizioni; che è invece un problema comune a tutti. Tutte queste persone si sono riconosciute anche in alcuni obiettivi generali – il ripudio del debito, la lotta contro precarietà, disoccupazione, incultura, deprivazione – e in un percorso da costruire in comune: attraverso un confronto e una consultazione aperta e senza pregiudizi. E innanzitutto, a Roma come a New York, a Madrid come a Barcellona, nella gioia di essere veramente “insieme”; o come dice Naomi Klein, di poter dire al vicino “mi importa di te”.
4. Non era un corteo di “giovani”, come tutti i commentatori hanno continuato a designarlo. Nella manifestazione erano presenti i temi più diversi: dall’acqua ai diritti dei lavoratori, dalla difesa della cultura a quella dell’ambiente, dalla promozione delle energie rinnovabili alla salvaguardia di scuola, università e ricerca, dall’agricoltura biologica alla lotta contro la vivisezione; ma nessuno – tranne, certamente, la volontà di farla finire in uno scontro – è stato vissuto come incompatibile con gli altri. Soprattutto, erano presenti, in modo massiccio e ben “rappresentato”, forse per la prima volta, tutte le generazioni: nonne e nonni, madri e padri, figlie, figli e nipoti; un vero family-day, di una famiglia molto allargata. E una risposta eloquente – come si è detto – a tutti i tentativi di analizzare la crisi in termini di conflitto intergenerazionale.
5. Che cosa sarebbe successo, infine, se quel corteo avesse potuto proseguire tranquillamente il suo percorso e concludersi, come avremmo voluto, in Piazza San Giovanni? Nessuno, nei media, se lo è chiesto. Ne sarebbe seguita un’acampada di centinaia di tende – e non di quelle poche decine che hanno fortunosamente trovato un’alternativa in Piazza Santa Croce in Gerusalemme – tante da rendere difficile il loro sgombero e quasi automatico una loro crescita e un continuo rinnovamento. Un problema in più per l’establishment! Tale da poter concludere che, da come sono finite le cose, gli è proprio andata nel migliore dei modi.
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