Tre commenti alle mie proposte sulla riconversione ambientale (“il manifesto” dicembre 2010)
Il neoambientalismo italiano, di Alberto Asor Rosa
In un suo recente articolo (il manifesto, 7 novembre) Guido Viale ci invita a «cambiare dal basso». Provo a mettermi il più direttamente possibile sulla sua lunghezza d’onda. Da più di quattro anni dirigo, coordino, assisto (la varietà delle prestazioni dipende dai gusti e dalle circostanze) una singolare organizzazione, che si è denominata: Rete dei Comitati per la difesa del territorio (da due anni divenuta anche Associazione, regolarmente «registrata» come tale). Sulla singolarità di tale organizzazione conviene soffermarsi un momento, perché ne deriva tutto il resto del ragionamento.
La Rete nasce dalla scelta spontanea e volontaria di un certo numero di Comitati di base, legati a loro volta all’identità di alcune battaglie locali (locali, ma non necessariamente di limitate dimensioni: basti pensare a casi come il sottoattraversamento Tav di Firenze o l’Autostrada tirrenica), di federarsi stabilmente in una sorta di mappa organizzata delle esperienze e delle strategie. La costituzione della Rete ha favorito l’incontro dei Comitati con alcune volonterose forze intellettuali, che ne rappresentano al tempo stesso la struttura di servizio e un luogo di originale elaborazione strategica. I due momenti non sono minimamente dissociabili; e non si rapportano fra loro in una specie di nuova gerarchia del potere (spesso, infatti, l’elaborazione strategica nasce in corso d’opera all’interno anche di un singolo Comitato, magari particolarmente avvertito). La Rete dei Comitati, intesa e praticata in questa forma, è ciò che noi siamo abituati a definire «neoambientalismo italiano», per distinguerlo dall’esperienza storica (per carità, positivissima) di altre associazioni ambientaliste più centralizzate e gerarchizzate.
La Rete è nata ed diffusa prevalentemente in Toscana, ma ha agganci e rapporti con situazioni liguri, venete, umbre, marchigiane, romane, laziali. Dialoga con le altre Associazioni (Italia nostra, Legambiente, Wwf), di volta in volta incontrandosi e distinguendosi. Ha rapporti eccellenti con il Fai. Recentemente ha aperto un canale di confronto e di scambio con un altro movimento, diverso ma consimile, «Stop al consumo di territorio», presente a sua volta soprattutto in Piemonte e Lombardia (ma anche altrove). Ma esperienze di Comitati sono attive in Italia ovunque. Anzi, più esattamente, ce ne sono in giro centinaia, di dimensioni che vanno dal microscopico ai supermassimi (NoTav di Val di Susa). Confinano o talvolta s’integrano con altre esperienze analoghe (Forum dell’acqua); invadono autorevolmente il campo istituzionale (lista «Per un’altra città», ben insediata nel Consiglio comunale di Firenze).
Insomma, i Comitati per la difesa del territorio, variamente organizzati e coordinati, sono una forma nuova di concepire e vivere la democrazia italiana. Anche per il solo fatto di esserci, appunto. Ma qualche ragionamento ulteriore può essere fatto. Gli ostacoli al cambiamento dal basso – per tornare all’indicazione di Viale – sono, a giudicare dalle mia esperienza, variabili e molteplici, ma tre sempre e ovunque risaltano. Sono: 1) Il conflitto inesauribile e insanabile, piccolo o grande che sia, con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento, che si manifestano in mille modi, da quello dichiaratamente delinquenziale a quello puttanescamente istituzionale; 2) la debolezza della risposta ad parte di una larga parte dell’opinione pubblica, e della maggior parte dei grandi mezzi di uno stravolto e magari morente (ma tuttora micidiale) modello di sviluppo (ancora Viale); 3) la pressoché totale sordità nei confronti di queste tematiche da parte di tutte (ripeto per brevità: tutte, ma potrei anche specificare) le forze politiche di livello nazionale. Il primo dovrebbe essere il nemico naturale di ogni difesa del territorio, della conservazione dei beni culturali, più in generale di una buona qualità della vita. Gli altri due, invece, nemici occasionali, episodici e dunque potenzialmente recuperabili: ma come? Ma quando?
Perché questi due obiettivi, che sono decisivi, si concretizzino e si avvicinino, bisogna secondo noi (qui esprimo il parere collettivo della Rete) imprimere alla battaglia ambientale un’accelerazione sia culturale che politica (il binomio qui è meno formale che altrove). Tale battaglia ruota sempre di più intorno alla nozione di «bene comune» (mi permetto di richiamare a tal proposito un mio articolo apparso nel dicembre 2008 su la Repubblica): le eredità culturali e artistiche, l’ambiente, il paesaggio, vanno intesi alla lettera, al pari dell’aria e dell’acqua, come patrimonio inalienabile delle generazioni umane presenti e anche, o forse soprattutto, future (si vedano, anche, gli studi e le proposte legislative elaborati in varie fasi da Stefano Rodotà). Su questo fondamento, una volta acquisito e diffuso, si possono basare una nuova cultura e una nuova politica, intese anch’esse nel senso più vasto.
In una recente riunione (Roma, 6 novembre) del Consiglio scientifico di cui la Rete si è dotata e della sua Giunta (illustrati, l’uno e l’altra, dalla presenza di molti dei più prestigiosi studiosi e specialisti del settore), sono state assunte due iniziative che si muovono nel senso predetto. La prima è la convocazione di una Conferenza nazionale dei Comitati che si occupano ovunque di difesa del territorio: l’obiettivo potrebbe esser quello di creare, non una Rete nazionale, ma una Rete di Reti, coerentemente con lo spirito del neoambientalismo, che non prevede, né in loco né fuori, rapporti gerarchici di direzione. La seconda è l’avvio della preparazione d’un grande Convegno, anch’esso nazionale, tematizzato su quello che potremmo sinteticamente definire: «Il disastro Italia», nel quale convogliare, in termini sia analitici sia di denuncia sia di progettualità propositiva, la grande risorsa intellettuale dei Comitati, accompagnata e intrecciata con quella dei molti studiosi e specialisti che l’hanno accompagnata, e che speriamo sia destinata a rafforzarsi ancor di più nel prossimo futuro.
Crescere dal basso dunque si può, ma solo se si contestualizzano e si organizzano, su di un orizzonte strategico più vasto, gli innumerevoli focolai locali. Il «salto di scala» è necessario perché ognuno di essi acquisti forza, allargando intorno a sé il consenso popolare e premendo in maniera decisamente più autorevole sulle forze politiche, locali e nazionali: cambiandone anche, cammin facendo, la natura. Mentre si studiano i modi per far fuori il cadavere di Berlusconi, e al tempo stesso si aprono le grandi manovre per assicurare la perpetuazione indefinita del berlusconismo, potrebbe essere questa una delle strade più serie e responsabili per garantire, insieme con la salvezza imprescindibile del territorio italiano, anche un salto in avanti di tutta la nostra democrazia.
Le idee antiecologiche (anche) della sinistra, (Enzo Scandurra)
Nell’articolo pubblicato su Il Manifesto del 17 novembre (Il neoambientalismo italiano) Alberto Asor Rosa riprende una riflessione di Guido Viale (Il Manifesto del 7 novembre) in merito ai modi del cambiamento (nella produzione, nel modello di sviluppo) – che per Viale non possono che partire “dal basso” – svolgendo alcune considerazioni in ordine agli ostacoli che a tale cambiamento si oppongono. Oggi assistiamo a una crescente diffusione mediatica delle nuove tecnologie non inquinanti come: solare, eolico, fotovoltaico, che va nella direzione di una sorta di vero e proprio nuovo business. L’impressione è che lo sviluppo – questo malsviluppo – rimane una variabile indipendente da realizzare semmai non più attraverso l’uso dei fossili, ma delle energie alternative. Lungo questa strada è mia opinione che non si produce alcun nuovo e vero cambiamento, ma solo una correzione di rotta che, prima o poi, tornerebbe ad essere ortogonale all’ambiente. E infatti a Viale non sfugge il fatto che la produzione di energie alternative dovrebbe avvenire in concomitanza di una nuova classe dirigente e il loro utilizzo in modo diffuso a livello di singoli e comunità, fino a produrre un cambiamento anche antropologico degli stili di vita e dei comportamenti individuali. Del resto lo stesso problema si presenta per lo smaltimento dei rifiuti: è ormai noto che la raccolta differenziata non è solo una opzione tecnica, ma, prima ancora, culturale e antropologica (facendo raccolta differenziata ci si rende conto di ciò che scartiamo e come viviamo). L’attuale modello di consumi e di stili di vita (almeno oggi nel mondo occidentale) non è sostenibile neppure se si sostituisse tutta l’energia fossile consumata con energia pulita. Inoltre le fonti energetiche rinnovabili non basterebbero mai (almeno oggi) a rimpiazzare l’attuale fabbisogno energetico. E allora? Ecco che subentra la centralità della questione culturale. Consumare meno e meglio, o diversamente, è la ricetta del futuro., In questa prospettiva, l’uso di fonti energetiche rinnovabili costituirebbe, come nel caso della raccolta differenziata, di innescare una “rivoluzione culturale” il cui obiettivo diventa quello dell’abbandono dell’attuale modello di sviluppo verso stili di vita più sobri e in armonia con l’ambiente. Ma questa operazione, appunto, è tanto più efficace quanto più scelta consapevole delle comunità insediate (vedi l’esempio delle “mamme vulcaniche” di Terzigno). Sempre in questa prospettiva il ruolo virtuoso del territorio diventa strategico: da supporto fisico inerte produttore di rendite parassitarie a luogo dell’abitare, territorio di comunità, luogo esso stesso di produzione. Ma veniamo all’articolo citato; Asor Rosa sostiene che esistono tre ostacoli al cambiamento dal basso e che di questi tre il primo: “il conflitto inesauribile e insanabile […] con i poteri forti dell’economia, della speculazione e dello sfruttamento” costituisce, rispetto agli altri due (l’ideologia dello sviluppo e l’assenza delle forze politiche sulla questione ambientale) il nemico naturale di ogni difesa del territorio, essendo gli altri due “invece, nemici occasionali, episodici e dunque parzialmente recuperabili”. Ebbene io penso, pur condividendo la tesi di Asor Rosa, che se il primo degli ostacoli citati costituisce una resistenza tenacissima al cambiamento anche il secondo ostacolo da lui citato (che per semplicità chiamo l’ideologia dello sviluppo), rappresenta un nemico altrettanto tenace del primo. Siamo davvero convinti che l’ideologia dello sviluppo, di questo sviluppo, sia giunta a capolinea? Paradossalmente, a me sembra, che la presunta fine di questo modello sia più nei fatti che nelle idee delle persone. E infatti molte delle calamità disastrose in Italia e fuori dal paese testimoniano che oggettivamente questo modello di sviluppo produce ormai un altissimo livello di aggressività nei confronti dell’ambiente, tale da mettere a repentaglio gli ecosistemi naturali di supporto alla vita. Tuttavia dal punto di vista culturale (e ancor più politico) siamo così imbevuti di questa ideologia da far fatica a pensare che possano esistere modi diversi di benessere. Implicitamente funziona una sorta di automatismo antropologico secondo cui abbandonare questa strada significherebbe regredire nel passato del sottosviluppo. Le idee e le abitudini (ancorché sbagliate e destituite di fondamento) sono tenaci a morire (proprio come il berlusconismo) e tendono a persistere anche quando ormai sono mutate le condizioni che le hanno prodotte, se nel frattempo non si affermano nuove idee e nuove abitudini più convincenti e più adeguate al cambiamento. Sto parlando, per intenderci, di quella cosa chiamata da Gregory Bateson “ecologia delle idee” . Bateson soleva dire che se vogliamo raggiungere un fine, diciamo così, ecologico allora anche i mezzi che utilizziamo per raggiungere questo fine devono essere altrettanto ecologici. Molti dei nostri comportamenti di sinistra peccano di questo vizio, una sorta di scissione (antiecologica) tra pensiero ed azione ogni qualvolta, ad esempio, che un’amministrazione (di sinistra) ritiene (e decide di conseguenza) che fare grandi opere, celebrare grandi eventi, far diventare le nostre città come Barcellona o Parigi o Dubai, sia un segno di modernizzazione. Tutto questo per dire che nel grande convegno annunciato (e benvenuto nel panorama italiano) da Asor Rosa sul tema “disastro Italia”, sarebbe forse opportuno lasciare lo spazio e l’opportunità per parlare anche del disastro conseguente alle nostre idee antiecologiche (non meno dannose dei combustibili fossili) che pure albergano nella sinistra. Idee come: competizione, efficacia, efficienza, modernismo, innovazione, velocità (alta velocità), .. e la lista sarebbe assai lunga a volerla stendere.
Un piano economico e sociale alternativo, Giorgio Cremaschi
La terribile evoluzione della crisi politica, sempre più avulsa da qualsiasi contenuto materiale, sottolinea ancora di più la necessità che, almeno fuori dal palazzo, ci si confronti sulla crisi reale del paese.
Guido Viale ha proposto alla Fiom di discutere concretamente della riconversione ecologica del sistema produttivo e del modello di consumo dominanti. Credo che proprio oggi il tema vada posto all’ordine del giorno delle lotte sociali e dei movimenti in corso.
Non che questo terreno sia così agevole da praticare. E’ evidente, infatti, che la fuga della politica nell’astratto assoluto è anche frutto della sua incapacità di padroneggiare la crisi economica e sociale. Che si sta aggravando, in Europa in particolare, e che sta sommando assieme tre crisi. Una produttiva e di modello di sviluppo, cioè una stagnazione dell’economia che nei paesi occidentali è determinata proprio da una caduta della crescita delle tradizionali produzioni e prodotti. Una crisi sociale che è determinata da una crescente e sempre più drammatica disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Una crisi finanziaria e fiscale che si riflette sia nei debiti privati che in quelli pubblici.
Mentre la Cina e i paesi di nuova crescita, seppure a prezzi sociali e ambientali enormi, continuano lo sviluppo, l’Europa accumula assieme tutte le crisi. Per questo è molto più facile continuare a blaterare di “riforme” che in realtà nascondono controriforme sociali e ha buon spazio in Italia la filosofia reazionaria di Marchionne, che semplicemente propone di rilanciare il vecchio modello di sviluppo su basi produttive molto più ristrette e con una brutale selezione sociale.
In Italia, e quasi sicuramente in Europa, una ripresa economica che assorba le contraddizioni e gli squilibri della crisi non ci sarà. Da qui il trionfo di ricette sociali brutali che, dalle privatizzazioni dell’acqua, della scuola e di tutti i beni comuni, alla distruzione dei contratti nazionali, alla messa in discussione di ciò che resta dello stato sociale, hanno come unico scopo quello di rimpicciolire la base sociale dell’attuale del modello di sviluppo. Il che conduce alla scelta folle di spingere la competitività e la produttività in funzione della crescita e dell’esportazione. Obiettivo logicamente assurdo se perseguito da tutti e socialmente devastante. Obiettivo che necessariamente impone un modello puramente autoritario nei rapporti di lavoro, come chiarisce Pomigliano. Anche le persecuzioni dei migranti, lo stato di polizia che ne garantisce il supersfruttamento fanno parte di questa drammatica reazione alla crisi.
In Italia, in particolare, il liberismo si propone così di selezionare un popolo fedele al proseguimento dell’attuale modello di sviluppo, nella piena consapevolezza che la crescita per tutti, anche nelle forme più distorte e ingiuste, non c’è e non ci sarà mai più.
Per questo la manifestazione del 16 ottobre e tutte le lotte sociali più radicali non trovano interlocutori veri sul piano dei programmi, nella politica italiana di oggi. Possono anche momentaneamente vincere, come Viale ha scritto per Terzigno, ma poi si trovano di fronte al muro di un sistema bloccato. La radicalità popolare ferma il regime liberista, ma poi esso riparte come prima.
Il bullismo antisindacale di Marchionne serve a mascherare il fatto che la Fiat non tornerà mai più in Italia ai volumi produttivi del passato, che solo una produzione di nicchia sarà riservata al nostro paese, fondata su un numero ristretto di operai appositamente selezionati e disposti a tutto. La newco, la nuova società che la Fiat vuole imporre a Pomigliano e probabilmente in tutto il gruppo, diventa un modello per tutta l’Italia. Ovunque si vuol passare a una newco sociale e produttiva che abbandona una parte del paese a sé stesso e seleziona sulla base del ricatto, della fedeltà e della disponibilità coloro che devono perpetuare il modello di sviluppo.
Tutte le lotte di resistenza, leva indispensabile per cambiare, oggi reclamano così un progetto economico sociale ecologico alternativo. Tutto si tiene, ma da dove partire allora? Io non credo che basti il ritorno alle economie locali che propone Guido Viale. Le lotte locali sull’ambiente, così come sui diritti, così come sul lavoro, scagliano immediatamente le comunità contro meccanismi e i poteri nazionali e sovranazionali. L’assoluta estraneità tra i due articoli comparsi su questo giornale a firma di Alberto Asor Rosa, il primo sulla crisi politica, il secondo sulle reti locali per la difesa del territorio e dell’ambiente, dimostra che oramai ovunque la scissione tra bisogni e realtà politica, si manifesta ovunque. Se l’obiettivo che ci diamo non è la pura sostituzione di Berlusconi con Marchionne o Montezemolo o simili, è evidente che l’arcipelago di lotte che oggi c’è in Italia e che si è ritrovato assieme il 16 ottobre a Roma con la Fiom, richiede una piattaforma unificante sociale e politica che è estranea, come sostiene anche Viale, alle attuali classi dirigenti. Una piattaforma che deve toccare le tasse, la finanza, la spesa pubblica, le politiche industriali, gli interventi pubblici nell’economia, la conoscenza, il pubblico e il privato, i diritti dei lavoratori, la distribuzione della ricchezza, la garanzia del reddito e di una reale parità dei diritti.
La riconversione ecologica dell’economia si intreccia con questo processo. Si possono produrre e comprare meno auto se si riduce l’orario di lavoro, se si lanciano programmi di investimento pubblico che costringano il sistema a consumare e a produrre trasporto pubblico al posto di quello privato. Questo richiede ingenti risorse che non possono che essere reperite portando via i soldi ai ricchi. Questione sociale e questione ecologica, diritti e uguaglianza, oggi sono strettamente e immediatamente connessi, non si tocca un pezzo della crisi senza essere coinvolti nella crisi di tutto il sistema. Non ci sono soluzioni riformiste alla crisi attuale, almeno nel significato che oggi questa parola ha assunto nella politica.
La forza della reazione, il ritorno continuo di Berlusconi e del berlusconismo, derivano dal fatto che l’alternativa è o cambiamenti radicali o regressione e selezione sociale.
Per questo credo che si debba avere il coraggio di proporre un vero e proprio piano economico e sociale alternativo alle politiche correnti, che riproponga lo spirito, non i contenuti, del piano del lavoro della Cgil di Di Vittorio degli anni Cinquanta. La Fiom, che ha interpretato con il 16 ottobre un sentimento diffuso di tanta parte del paese, può forse proporsi di promuovere un’operazione più ambiziosa, quella della costruzione di tale piano, facendolo nascere dall’incontro tra i saperi liberi e l’esperienza dei movimenti. Vale la pena di provarci per costruire una piattaforma alternativa alla pura conservazione e restaurazione del sistema esistente. Una piattaforma che guidi i conflitti e rifiuti i patti sociali e selezioni una nuova classe dirigente per i prossimi anni. Questo per me significa costruire una vera alternativa a Berlusconi e al berlusconismo. Ma qui torniamo ancora alla crisi della politica, della sinistra e del sindacato italiano.