Un mondo di tutti
A seguito delle decisioni prese al vertice di Abidjan, nei prossimi mesi l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, agenzia dell’Onu, evacuerà (se ci riesce) 15mila profughi detenuti nella Libia di Serraje. Costo previsto, 80 milioni: 5.300 euro a testa. L’Oim calcola che imbottigliati o imprigionati in Libia ci siano da 700mila a un milione di migranti. Evacuarli tutti costerebbe dunque da 37 a 50 miliardi: Più dei fondi, pubblici e privati, che l’Europa ha promesso di mobilitare per il cosiddetto piano Marshall per l’africa; solo l’evacuazione li assorbirebbe tutti. Ma a quei profughi il viaggio fin lì è costato spesso anche di più, senza contare i riscatti pagati dalle famiglie per salvare quelli di loro sotto tortura; il che, aggiungendovi i 660mila profughi sbarcati in Italia dal 2013, ci dà la misura del drenaggio dai paesi di origine, non solo di uomini e donne nel pieno dell’età e del vigore, ma anche di denaro: a beneficio di mafie e bande armate. Ma per raggiungere e rimpatriare tutti quei prigionieri bisognerebbe fare un’altra guerra: contro le centinaia di bande che li tengono prigionieri e a cui la precedente guerra contro Gheddafi ha consegnato il paese…
I trasferimenti, assicura l’Oim, saranno volontari. Ovvio: chi non vorrebbe fuggire dall’inferno, dalle torture, dalle violenze, da continuo pericolo di venir ucciso che sta subendo in Libia? Ma verso dove? Di 50mila, considerati profughi perché provenienti da Stati “insicuri” (Somalia ed Eritrea), di occuperà l’Unhcr (l’agenzia dell’Onu per i profughi): destinazione, uno Stato dell’Unione europea; ma nessuno dei loro Governi li vuole. Tutti gli altri, considerati “migranti economici”, perché provenienti da Stati considerati “sicuri”, anche se attraversati da conflitti sanguinosi (in alcuni casi combattuti anche da truppe europee), dovrebbero venir rispediti in quei paesi da cui sono scappati, proprio perché non vi potevano più restare. E che ne faranno, di quei loro sudditi, i Governi a cui l’Oim li vorrebbe restituire? Nei 5.300 euro è compreso, in teoria, anche il costo del loro reinsediamento e del loro avviamento al lavoro. E con quali programmi? Quelli spacciati dall’Unione europea, il “migration compact” di Renzi, l’”action plan” della conferenza de La Valletta, il “piano Marshall per l’Africa” ventilato ad Abidjan. Tutti piani che hanno per referenti delle multinazionali (il migration compact di Renzi, per esempio, indicava esplicitamente Eni ed Edf, impegnate nella devastazione, rispettivamente, di Nigeria e Niger): per trasferirvi attività industriali, costruire infrastrutture, “valorizzare” risorse locali: cioè continuare a saccheggiare quei territori come hanno fatto finora; e come la Cina sta dimostrando di saper fare molto meglio. Tutto ciò, anche se venisse fatto, non cambierebbe le ragioni che spingono milioni di persone a fuggire dalle loro case, migrando in gran parte non verso l’Europa, ma verso altre regioni o altri Stati africani confinanti. Più facile che quei fondi vengano impiegati nella costruzione di nuovi campi di concentramento, trasferendo un po’ più a sud una parte degli orrori della Libia.
Per risanare quelle terre e quelle comunità non ci vogliono “grandi opere”, ma nuovi protagonisti: abitanti e comunità locali messe in grado di intervenire, con lavori di bonifica, di risanamento e iniziative di pacificazione, su territori e tessuti sociali che loro conoscono bene, perché vi hanno vissuto per centinaia di anni. Possibilmente aiutati da qualche scaglione di migranti che desiderano ritornare nei paesi che hanno lasciato, dopo qualche anno o decennio passato in Europa, e con un bagaglio di conoscenze, di relazioni e di professionalità acquisite nell’emigrazione. Tutto ciò, a condizione che torni la pace in quei territori; che vuol dire: smettere e impedire di vendere armi a chi sta facendo la guerra e mettere i cittadini espatriati di quei paesi in grado di organizzarsi e di mettere a punto dei piani di pacificazione dei territori da cui sono fuggiti, invece di trattarli come intrusi e scarti umani. Nessuno è più pacifico di chi fugge da una guerra; nessuno sa affrontare meglio i problemi di un ritorno a una convivenza pacifica tra i nemici di ieri. Utopia? No. Forse che molti dei profughi siriani giunti in Europa o imbottigliati in Turchia non vorrebbero tornare là da dove sono fuggiti? O non sarebbero capaci di partecipare alla ricostruzione del loro paese? Se solo ce ne fossero le condizioni…
I governi europei non hanno una strategia per affrontare il problema dei profughi perché non sanno più dare lavoro, casa e servizi nemmeno a un numero crescente di loro concittadini; e perché sono tutti lanciati all’inseguimento delle forze di destra e razziste che del respingimento hanno fatto la loro sirena elettorale. Ma quei respingimenti tanto invocati e mai analizzati nelle loro conseguenze non funzionano: li ha messi in pratica Minniti, con il plauso di Salvini, Meloni e dei loro seguaci; e si è visto che non risolvono niente: aumentano solo il numero dei morti e la ferocia delle violenze.
Chi invece si schiera per l’accoglienza cerca spesso di rendere accettabile questa scelta ridimensionando il fenomeno: in fin dei conti “sono pochi”: l’Europa avrebbe tutte le possibilità, e anche l’interesse, a integrarli… Sono sì pochi; ma sono l’avanguardia e la manifestazione di un processo epocale. I profughi ambientali e climatici, e le vittime delle guerre provocate da quei dissesti, non sono pochi; sono milioni; e saranno sempre di più; e nessuno riuscirà a fermarli. Per questo si deve e si può lavorare alla loro accoglienza e inclusione, ma anche lavorare per mettere in condizione quelli che lo desiderano di far ritorno nel loro paesi: qui, in Europa, potrebbero organizzarsi per progettarlo; là, nei paesi da dove sono fuggiti, non hanno alcuna possibilità di farlo. Aa affrontare il problema dei profughi di oggi e di domani, che è di ordine secolare, può contribuire solo la consapevolezza che l’Europa, il Medioriente e l’Africa centro-settentrionale sono ormai un unico mondo con al centro il Mediterraneo; e che è interesse di tutti garantire in esso una libera circolazione nei due sensi di persone e di esperienze. In modo che, dopo un periodo più o meno lungo di permanenza all’estero, tutti, profughi e migranti, di ieri, di oggi e di domani, siano messi in grado di ritornare, se vogliono, nelle loro terre con quelle conoscenze e quelle relazioni che sono l’unico investimento dell’Europa in grado di risanare quelle terre. E viceversa. Abbiamo anche tanto da imparare da popoli e culture che continuiamo invece a trattare come se fossero ancora delle colonie.