Una risposta alle critiche Luigi Cavallaro alle mie posizioni sul Sessantotto
I trent’anni che la pubblicistica ha definito “gloriosi” erano stati caratterizzati in Occidente dall’egemonia del fordismo: la concentrazione dei lavoratori in grandi stabilimenti integrati, l’omogeneizzazione delle loro condizioni, la parcellizzazione e il degrado del loro lavoro, l’impiego a tempo indeterminato, la localizzazione degli stabilimenti nei paesi “sviluppati”. Parallelamente all’organizzazione del lavoro fordista, la scolarizzazione di massa era stata proposta e vissuta come un “ascensore sociale” in grado di trasformare, nell’avvicendarsi delle generazioni, i contadini in lavoratori dell’industria, gli operai in impiegati e gli impiegati in quadri, manager o in o liberi i professionisti: per alcuni decenni era stata questa la risposta del sistema alle aspettative di emancipazione sociale delle classi sfruttate. Fabbrica, scuola e welfare avevano costruito nei paesi dell’Occidente un contesto di relativa stabilità e sicurezza per tutti. Ma i costi del welfare, la crescita dei salari e, soprattutto, la modificazione, “concertata” o conflittuale, dei rapporti di forza nelle fabbriche avevano finito per erodere i profitti delle imprese, mentre la saturazione dei posti qualificati offerti dall’organizzazione del lavoro aveva messo in crisi il mito della scuola come ascensore sociale, aprendo le porte a una conflittualità studentesca che dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Europa all’America latina, aveva contrassegnato tutta la seconda metà degli anni Sessanta.
I trenta e più anni successivi hanno visto il sistematico frazionamento delle grandi unità produttive, la progressiva differenziazione dei rapporti di lavoro, la delocalizzazione di attività sia manifatturiere che terziarie, la precarizzazione non solo dell’impiego, ma di tutti gli aspetti dell’esistenza nel quadro di una crescente finanziarizzazione del capitale. Il meccanismo della concorrenza si è così progressivamente esteso dalle imprese, soggetto ormai unico della scena e dell’attenzione sociale, ai lavoratori, sia autonomi che dipendenti, in una lotta darwiniana di tutti contro tutti che ha trasformato i problemi creati dalla società in vicende biografiche da risolvere individualmente. Questa trasformazione è stata accompagnata da un processo di sostanziale descolarizzazione, pur salvaguardando in alcuni paesi – non nel nostro – i contenuti tecnici e professionali della formazione; ma sempre nel quadro di una svalutazione dei contenuti culturali, sociali e civili dell’educazione. Così l’organizzazione della produzione ha smantellato una delle conquiste più importanti del periodo precedente, la sicurezza del lavoro, del reddito e dell’esistenza, instaurando nel mondo un clima di paura di tutti per tutti e di tutto.
Un approccio materialistico a quella inversione di rotta non può evitare di vedervi una reazione del capitale e dei Governi alle conquiste delle lotte operaie, studentesche, e di molte altre categorie sociali, che avevano sconvolto tutta la seconda metà degli anni Sessanta e la prima metà dei Settanta. Ma anche, e soprattutto, l’avvento di una nuova tecnologia, quella della “Rete”, che ha avuto e ha sulla storia del mondo un’influenza non inferiore a quella della macchina a vapore nel promuovere la rivoluzione industriale. Oggi la rete ha un ruolo decisivo nel promuovere collegamenti, organizzazione e rivolta in molti dei processi sociali che attraversano l’alba del nuovo secolo. Ma ha avuto – e da tempo – un’influenza assai più profonda nel disegnare i caratteri della globalizzazione degli ultimi decenni del secolo scorso e del primo decennio di questo; che non è concepibile senza la Rete, come mera estensione a gran parte del mondo di rapporti di produzione fondati sul lavoro salariato. Internet ha da tempo immesso ogni unità produttiva del pianeta all’interno di linee di fornitura (supply chain) che ne plasmano e riplasmano in continuazione dimensioni, posizione gerarchica, localizzazione e struttura organizzativa. Se Detroit, Mirafiori o Volksburg sono state l’emblema del fordismo, Walmart, Auchan e – perché no? – le Coop, con la loro rete di fornitori, lo sono dell’ odierna organizzazione della produzione.
Per questa incapacità di guardare ai processi materiali, e per quanto prevedibile, lascia sconcertati l’ultimo intervento di Luigi Cavallaro su questo giornale (13.5.2011) che riprende stereotipi vecchi di almeno trent’anni (le tesi di Christopher Lash sulla deriva narcisistica della cultura del Sessantotto), peraltro largamente saccheggiate nel corso del tempo da chi, dalle posizioni più diverse e anche contrapposte, imputa a quegli anni il degrado – anche questo inteso in modi diametralmente opposti – del tempo presente. Il meccanismo di questa operazione è sempre lo stesso. Assume le vicende biografiche di alcuni personaggi vistosamente presenti sulla scena mediatica a emblema del percorso esistenziale di decine o centinaia di migliaia di persone, che nei conflitti di quegli anni si erano impegnate e formate; dimenticando migliaia e migliaia di insegnanti che in tutti questi anni hanno tenuto insieme la scuola; di impiegati pubblici che hanno cercato di far funzionare i servizi; di cooperanti impegnati nel welfare a diretto contatto con gli utenti; di operatori che, soprattutto in provincia, hanno costruito e tenuto in piedi i pochi spazi di confronto culturale esistenti; di operai migrati in po’ dappertutto, perché cacciati dalle fabbriche dove avevano sovvertito i rapporti di forza aziendali. Tutti quelli che hanno scelto o sono stati costretti a operare nell’ombra, e che Cavallaro, come molti come lui, non riescono a scorgere. Per completare l’opera, tutte queste vicende esistenziali, differenziate e complesse, Cavallaro le proietta sull’intera generazione dei baby boomer, per attribuire alla cultura del Sessantotto fatti e misfatti di politici e manager privati e di stato, di giornalisti e opinionisti che dalle vicende del Sessantotto si erano tenuti ben lontani; e che proprio per questo hanno potuto percorrere con facilità carriere rese sgombre, soprattutto in Italia, dalla loro criminalizzazione: una resa dei conti che, come si è visto, si protrae e ripropone fino a giorni nostri.
Quello che non riescono capire tanti nemici del Sessantotto come, da opposti versanti, sia Luigi Cavallaro che Mariastella Gelmini (un buon esempio di mediocrità quanto a studi, esami, rapporti personali e cariche politiche in cui acquiescenza e servilismo hanno sostituito il merito) è la differenza tra la ricerca di una autonomia personale, e anche di una propria individualità che ne esalti le differenze, perseguita all’interno di un processo condiviso, nel rapporto con un collettivo e un movimento aperto a ogni nuovo apporto – che è stato in tutto il mondo il tratto comune dei movimenti antiautoritari e antidisciplinari di quegli anni, nelle fabbriche come all’università e un po’ in tutte le istituzioni – da un lato; e, dall’altro, invece, l’inseguimento di un’affermazione personale a scapito del prossimo, perseguita nel contesto di una competizione di tutti contro tutti; che è la strada maestra del servilismo: dell’asservirsi per fare carriera o anche solo per non essere retrocesso.
Se un elemento di connessione tra la cultura del Sessantotto, qualunque cosa si intenda con questo termine, e il presente c’è (e in varie sedi mi sono sforzato di individuarla) non è l’individualismo narcisistico o l’assenza di una cultura del limite, come sostiene Cavallaro: nessun movimento storico è stato forse meno individualista del Sessantotto; e nessuna esperienza storica é stata più pronta a recepire la cultura del limite, elaborata dai teorici dell’ambientalismo in aperta contrapposizione con la logica dello “sviluppo delle forze produttive” a ogni costo, che accomuna invece Cavallaro ai più tetragoni economisti borghesi. A spianare la strada al passaggio dalla ricerca di una realizzazione personale all’interno di una prassi collettiva alla scelta – o all’obbligo – di cercare un’affermazione in una competizione darwiniana ha contribuito sicuramente l’insufficienza dei presidi culturali messi in campo dai movimenti del Sessantotto: cioè l’incapacità di sviluppare saperi pratici in grado di individuare dei punti di applicazione a quel desiderio di cambiare il mondo che ne costituiva l’afflato comune.
Oggi quei saperi in parte ci sono: per alcuni versi sono il frutto di un impegno pionieristico e a volte solitario di studiosi e organizzatori di buone pratiche che hanno perseguito con pertinacia una strada controcorrente; in parte sono il frutto di un’elaborazione collettiva di movimenti ed esperienze che nel corso degli anni più recenti hanno animato la scena sociale; senza peraltro alcun riscontro a livello di establishment, sia politico che culturale e mediatico e, meno che mai, economico. Per questo la prospettiva di un’alternativa può ritrovare le gambe su cui marciare e il desiderio di un mondo diverso, – che il servilismo non ha soffocato, soprattutto in persone che il limite lo vivono ogni ora della loro vita nella condizione della precarietà – può tornare a orientare un agire condiviso.